La risalita delle piste da sci da parte degli scialpinisiti.

Brevi note circa la risalita delle piste da sci da parte degli scialpinisti per l’evento formativo della Camera Civile del Piemonte e della Valle d’Aosta del 21.10.2021 dal titolo:

LA RESPONSABILITÀ CIVILE E PENALE

NELL’ACCOMPAGNAMENTO IN MONTAGNA

(Avv. Mauro Manassero)

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L’argomento relativo alla risalita delle piste da sci da parte degli scialpinisti non comporta particolari difficoltà di individuazione delle norme e di interpretazione delle medesime, poiché chiaro ne è il contenuto.

Piuttosto, in base alla mia esperienza personale, mi risulta che molti scialpinisti non siano al corrente delle norme stesse e, dall’altro canto, pare che i gestori degli impianti non siano normalmente propensi a pretenderne il rispetto, sia per le difficoltà oggettive e materiali, sia per il timore di attriti con gli sportivi e sia perché, non essendo pubblici ufficiali, non sono titolari dei poteri necessari per contestare le violazioni.

Il principio generale, che era già presente nella precedente L. n. 363/2003 e che è stato confermato nel novello Decreto legislativo n. 40 del 28.02.2021, è che agli scialpinisti (così come ai ciaspolatori, pedoni, slitte e slittini, motoslitte, etc.) è fatto divieto assoluto di risalire le piste da sci.

Quando sono aperte, perché si verrebbe a creare l’evidente pericolo di scontro tra gli sciatori discesisti e coloro che risalgono le piste; quando sono chiuse, perché in tale circostanza gli addetti della stazione provvedono ad intervenire per le manutenzioni necessarie a chiusura impianti e per predisporre le piste (battitura) per la giornata successiva – a tutti gli effetti, quando le piste sono chiuse sono infatti dei “cantieri”.

Tali norme sono spesso violate, e, infatti, sono frequenti i casi di incidenti, anche gravissimi se non addirittura letali, occorsi a scialpinisti soprattutto ad impianti chiusi in conseguenza di impatti contro mezzi battipista o contro cavi d’acciaio utilizzati per l’ancoraggio dei medesimi.

Le norme che contengono il divieto, che sono in vigore dal 3 aprile 2021, sono:

Art. 24. Transito e risalita

1. E’ vietato percorrere a piedi e con le racchette da neve le piste da sci, salvo in casi di urgente necessità.

2. Chi discende la pista senza sci deve tenersi ai bordi delle piste, rispettando quanto previsto all’articolo 25, comma 3.

3. In occasione di gare o sedute di allenamento è vietato a coloro che non partecipano alle stesse di sorpassare i limiti segnalati, sostare sulla pista di gara o di allenamento e di percorrerla.

4. La risalita della pista con gli sci ai piedi e l’utilizzo delle racchette da neve, o con qualsiasi altro mezzo, sono normalmente vietati. Le risalite possono essere ammesse previa autorizzazione del gestore dell’area sciabile attrezzata o, in mancanza di tale autorizzazione, in casi di urgente necessità, e devono comunque avvenire mantenendosi il più possibile vicini alla palinatura che delimita la pista, avendo cura di evitare rischi per la sicurezza degli sciatori e rispettando le prescrizioni di cui al presente decreto, nonché quelle adottate dal gestore dell’area sciabile attrezzata.

… è poi molto interessante il quarto comma dello

Art. 26. Sci fuori pista, sci-alpinismo

e attività escursionistiche.

1. Il concessionario e il gestore degli impianti di risalita non sono responsabili degli incidenti che possono verificarsi nei percorsi fuori pista serviti dagli impianti medesimi.

2. I soggetti che praticano lo sci-alpinismo o lo sci fuoripista o le attività escursionistiche in particolari ambienti innevati, anche mediante le racchette da neve, laddove, per le condizioni nivometeorologiche, sussistano rischi di valanghe, devono munirsi di appositi sistemi elettronici di segnalazione e ricerca, pala e sonda da neve, per garantire un idoneo intervento di soccorso.

3. I gestori espongono quotidianamente i bollettini delle valanghe redatti dai competenti organi dandone massima visibilità.

4. Il gestore dell’area sciabile attrezzata, qualora le condizioni generali di innevamento e ambientali lo consentano, può destinare degli specifici percorsi per la fase di risalita nella pratica dello sci alpinismo.

La previsione contenuta in questo comma rappresenta un’evidente disponibilità delle associazioni di gestori (ANEF e FEDERFUNI) che, al fine di soddisfare anche le esigenze degli sportivi (non loro clienti), si sono rese disponibili a predisporre tali percorsi di risalita ove l’innevamento lo consenta.

In ogni caso, comunque, tutti i soggetti, fatta eccezione per gli sciatori discesisti dotati di skipass, dovrebbero astenersi dal percorrere le piste da sci e, ripeto, sia quando sono aperte e sia quando sono chiuse

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L’incendio negli edifici, profili civilistici.

Relazione dell’Avv. Mauro Manassero nell’evento formativo della Camera Civile del Piemonte e della Valle d’Aosta del 13.12.2021 dal titolo:

L’incendio: profili penalistici, civilistici ed assicurativi.”

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INCENDIO: profili civilistici.

Nel c.c. l’incendio è nominato solamente in tre articoli (1588 perdita e deterioramento della cosa locata – 1611 incendio di casa abitata da più inquilini – 1589 incendio di cosa assicurata) di quest’ultima norma non mi occuperò rientrando nell’argomento della successiva relazione dell’avv. M.C.

esclusa la norma contenuta nell’art. 1589, sotto l’aspetto civilistico l’incendio è, quindi, espressamente disciplinato dal codice solamente quando coinvolga un immobile condotto in locazione o quando si tratti di “cosa” locata .. si tratta quindi della disciplina che discende dalla sussistenza del rapporto contrattuale della locazione

Inoltre, l’argomento rientra, ovviamente, nell’alveo delle previsioni codicistiche di cui all’art. 2043 e seguenti per i risvolti risarcitori del danno procurato dall’incendio a beni appartenenti a soggetti terzi

Non potendo, in questa sede trattare tutte le ipotesi, limiterò la mia trattazione all’incendio in ambito condominiale ed all’incendio dell’immobile locato, lasciando alla libera iniziativa di ciascuno di Voi per gli approfondimenti relativi alle altre ipotesi (incendio provocato dall’incapace – 2047 – dal minore 2048 – dal lavoratore dipendente 2049 – per le attività pericolose 2050 – dalla circolazione di veicoli 2054) mentre per quanto concerne la previsione di cui all’art. 2051, responsabilità per le cose in custodia, rientrerà nella relazione essendo riferibile alla responsabilità dell’amministratore del condominio

Iniziando, quindi, dall’incendio nel condominio:

occorre distinguere se esso si sia propagato da una delle parti comuni dell’edificio e, quindi, ad esempio dall’impianto elettrico o dall’impianto del riscaldamento comune, o se esso sia scaturito da un abitazione privata

Nel primo caso, ove sia accertato che l’evento è scaturito a causa di mancate manutenzioni, mancati adeguamenti degli impianti alle norme di legge e, quindi, al di fuori ed oltre l’ipotesi della sussistenza del “caso fortuito”, che rappresenta l’unica causa di esclusione della responsabilità per le cose in custodia, l’amministratore del Condominio sarà ritenuto responsabile dei danni derivati dall’evento.

Egli potrà andar esente da responsabilità solamente offrendo la prova della sussistenza del caso fortuito, che consiste nella dimostrazione che il fattore determinante l’insorgere dell’incendio, nel caso del Condominio, ha avuto origine in parti, strutture o apparati sottratti alla sua disponibilità ed al suo controllo e, quindi, estranei alla sfera dei suoi poteri e doveri di vigilanza.

Quindi, l’amministratore del Condominio è responsabile, civilmente e penalmente, delle conseguenze derivate dall’incendio delle parti comuni sulla base della previsione dell’art. 2051 per la responsabilità delle cose in custodia in quanto egli, ai sensi dell’art. 1130 n. 4 cod civ. (obbligo di compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio) ed in base all’art. 40 c.p. secondo comma (Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo) poiché egli è responsabile per l’attività di controllo che su di lui grava in virtù del rapporto di mandato d’amministrazione che rende legittima la pretesa dai condomini avente ad oggetto la custodia dei beni comuni; in tal caso, mi correggano i penalisti, si versa nell’ipotesi del reato omissivo improprio, o commissivo mediante omissione.

Tale condotta acquisisce, dunque, rilevanza causale poiché deriva dall’assunzione volontaria dell’obbligo di custodia al quale l’amministratore si sottopone in virtù della sua attività professionale e del mandato ricevuto per via contrattuale.

Corollario di quanto detto fino ad ora, è il principio per il quale il Condominio, ed il suo amministratore, non possono esser tenuti responsabili quando l’incendio si sia propagato da una parte privata e non da un parte comune, così come deciso ad esempio dal

Tribunale – Roma, 05/11/2001,

Il condominio non è responsabile dei danni causati a terzi da un incendio che, pur avendo coinvolto il fabbricato condominiale, si sia sviluppato all’interno di una porzione di proprietà esclusiva.

In tal caso, la responsabilità risarcitoria graverà sul proprietario dell’unità dalla quale si è propagato l’incendio con riguardo ai danni derivati alle unità private limitrofe coinvolte nell’evento ed alle parti comuni dell’edificio.

A tal proposito, ritengo opportuno rassegnarvi un breve corredo giurisprudenziale riguardo ad alcune pronunce che ho reperito e che mi paiono interessanti.

Ovviamente, molte saranno sentenze penali ma vorrete perdonarmi perché ciò è determinato non dalla mia volontà di “sconfinare” dalle mie competenze, ma perché l’argomento è stato trattato in massima parte dai giudici penali nelle sentenze dei quali si reperiscono spunti d’interesse civilistico.

In primo luogo la Sentenza Cass. Civ. n. 39959/09 della quale sono state pubblicate più massime, tre delle quali mi paiono interessanti perché confermano quanto fino ad ora vi ho detto

Cass. pen., Sez. IV, 23/09/2009, n. 39959

La responsabilità penale dell’amministratore di condominio (nella specie in considerazione per l’incendio causato dal malfunzionamento di una canna fumaria) ha natura omissiva, traendo origine dalla violazione dell’obbligo di compiere tutti gli atti idonei a tutelare i diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, ne discende che l’accertamento in concreto della colpevolezza di tale soggetto postula sia l’individuazione precisa del comportamento in concreto esigibile in relazione alla sua posizione di garanzia, che la sussistenza del nesso causale tra l’omissione e l’evento lesivo.

L’amministratore di un condominio è titolare di garanzia quanto alla conservazione delle parti comuni dell’edificio condominiale, giusta l′inequivoco disposto dell’art. 1130 n. 4, del codice civile, onde, laddove non si attivi, può ravvisarsi la sua responsabilità ex art. 40, comma 2, del c.p., che stabilisce che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” con la precisazione che l’obbligo di attivarsi a carico dell′amministratore non deriva da alcuna specifica autorizzazione dei condomini, giacché l’art. 1130 n. 4, del codice civile gli pone come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, prescindendo, anzi, dal fatto che si tratti di atti cautelativi e urgenti e prescindendo, altresì, dal fatto che la situazione di pericolo derivi dai beni di terzi e non sia di pertinenza del condominio. (Nella specie, trattatasi di un percolo di incendio riconducibile al difetto di installazione di una canna fumaria non appartenente al condominio, bensì a terzi).

Sussiste una responsabilità penale in capo all’amministratore di condominio nel caso di danni allo stabile da lui gestito solo se risulta giustificata e processualmente certa la conclusione che la sua condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica (in applicazione del suesposto principio, la Corte ha annullato un verdetto di condanna che riteneva responsabile anche un amministratore di condominio, a titolo di concorso colposo, dell’incendio scoppiato nell’edificio e causato dalla difettosa installazione della canna fumaria della pizzeria attigua al palazzo).

Tornando all’obbligo di custodia delle parti comuni, occorre specificare che esso non è limitato alle condizioni materiali ed agli eventi fattuali dai quali potrebbe propagarsi l’incendio, ma si estende anche alle attività che potremmo definire “d’ufficio” .. esempio di questo principio si reperisce nella sentenza

Cass. pen., Sez. IV, 30/06/2017, n. 43500

L’amministratore che stipuli un contratto di affidamento in appalto di lavori da eseguirsi nell’interesse del Condominio è tenuto, quale committente, all’osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale dell’impresa appaltatrice essendo titolare di un obbligo di garanzia, quanto alla conservazione e manutenzione delle parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’art. 1130 cod. civ. Non rileva pertanto, nel caso di specie, che l’incendio si sia sviluppato su una parte comune dell’edificio condominiale ovvero su un bene appartenente al singolo condomino, accessibile dalla parte comune. Egli, ben consapevole che i lavori da eseguire comportavano l’utilizzo di materiale infiammabile, avrebbe dovuto attivarsi a tutela delle parti comuni esposte a pericolo, assicurandosi della capacità della persona incaricata: la sua colpevole inerzia ebbe perciò un ruolo causalmente incidente sulla produzione dell’evento.

Ovviamente la responsabilità dell’amministratore del Condominio sarà definitivamente esclusa quando il comportamento dei singoli condomini abbia influito, con funzione causale ed esclusiva, sull’accadimento dell’evento pernicioso e, a tal proposito, mi pare degna di rilievo la pronuncia del

Tribunale – Teramo, 26/01/2017, n. 48

La condotta colposa dei danneggiati (sostanziatasi nel mancato rispetto, pur essendovi tenuti in relazione alle porzioni di loro esclusiva pertinenza, della normativa sulla prevenzione degli incendi e, dunque, nella mancata predisposizione ed adozione di tutti i dispositivi all’uopo prescritti e che, ove esistenti, avrebbero con ogni probabilità, avuto riguardo in particolare alla porta tagliafuoco -notoriamente deputata, tra l’altro, a ridurre la diffusione di fiamme e fumo tra compartimenti di un edificio – impedito l’infiltrarsi delle propagazioni di fumo rilasciate dall’incendio) appare idonea ad elidere qualsiasi preteso profilo di responsabilità custodiale dell’amministratore di condominio in proprio, ponendosi quale fattore causale idoneo di per sé solo a rilevare quale causa dell’eventus damni dedotto.

Con riguardo, infine, al riparto dell’onere probatorio, occorre rilevare che

Tribunale sez. XII – Roma, 14/01/2016, n. 694

In tema di responsabilità da cosa in custodia (art. 2051 c.c.), seppure la ripartizione dell’onere della prova sia particolarmente agevole per il danneggiato, quest’ultimo deve comunque dimostrare il fatto storico (comprensivo della qualità di custode del bene foriero di danno in capo al convenuto) ed il nesso causale tra il pregiudizio subito e l’evento dedotto; resta, invece, a carico del custode la dimostrazione della sussistenza del caso fortuito volto ad interrompere il nesso causale tra il danno e l’evento, così da renderlo esente da responsabilità. (Fattispecie relativa ad un incendio scoppiato in un condominio, in cui è stata esclusa la responsabilità ex art. 2051 c.c. a fronte della mancata dimostrazione che il fatto avesse avuto origine nelle parti del bene oggetto dell’onere di custodia e manutenzione da parte del condominio).

E con riferimento al momento processuale della deduzione della prova relativa al fatto del terzo che interrompa il nesso causale, Vi segnalo la sentenza

Cass. civ., Sez. III, 23/06/2016, n. 13005

In materia di responsabilità da cose in custodia, la sussistenza del caso fortuito (nella specie, incendio di cassonetto dolosamente provocato dal terzo), idoneo ad interrompere il nesso causale, forma oggetto di un onere probatorio che grava sul custode, soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni istruttorie, ma non anche di un’eccezione in senso stretto, sicché la relativa deduzione non incorre nella preclusione fissata, per il primo grado, dall’art. 167, comma 2, c.p.c. (comparsa di costituzione risposta) (Rigetta, App. Genova, 13/03/2012)

Per definitivamente concludere con riguardo alla responsabilità dell’amministratore e dell’obbligo di custodia sul medesimo gravante, vi segnalo una sentenza di legittimità che parrebbe, tuttavia, affermare il contrario di quanto fino ad ora vi ho detto …. ma non è così !

si tratta di

Cassazione penale sez. III – 29/11/2011, n. 886

Nell’ipotesi in cui la Corte di cassazione riscontri, unitamente alla causa estintiva della prescrizione del reato, un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata, deve annullarla senza rinvio ai fini penali e, ove la sentenza contenga la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, annullarne anche le statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello (fattispecie relativa all’impugnazione della sentenza di condanna emessa nei confronti di un amministratore di condominio per non aver impedito il propagarsi di un incendio, nonostante gli fosse stata consegnata un perizia tecnica in cui si dava atto che i lavori per la realizzazione di una canna fumaria, in una pizzeria adiacente all’immobile condominiale erano stati eseguiti in modo difforme dal progetto iniziale, risultando tale canna fumaria quasi completamente sprovvista di qualsiasi limitazione del calore prodotto, e che vi era conseguente possibilità di incendio).

Infatti, avendo avuto l’amministratore la perizia che accertava l’insufficienza del sistema di coibentazione della canna fumaria, è sorto in lui l’obbligo di custodia e di protezione delle parti comuni che avrebbero potuto esser danneggiate in conseguenza dell’incendio. Parrebbe trattarsi di un’interpretazione particolarmente estensiva dell’obbligo di custodia, ma in realtà così non è anche in considerazione della previsione del secondo comma dell’art. 40 c.p. già prima visto, per il quale (Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo).

Nel caso poi, della sussistenza di più concause concorrenti alla propagazione dell’incendio, ognuna di esse concorrerà alla determinazione dei soggetti tenuti responsabili al risarcimento, così come affermato in

Cass. civ., Sez. III, 26/10/2017, n. 25422

In tema di responsabilità civile per danni provocati da incendio, nella produzione dell’evento dannoso assumono concorrente rilevanza tutte le cause che abbiano determinato la diffusività e la propagazione del fuoco, e non soltanto i fattori che ne abbiano cagionato l’innesco. (Nella specie, la S.C., confermando la decisione di merito, ha ritenuto fattori concorrenti nella causazione di un incendio l’erronea installazione di un contatore di elettricità, tale da provocare un cortocircuito, e l’accumulo, nelle vicinanze dello stesso, di materiale facilmente infiammabile). (Rigetta, CORTE D’APPELLO CAMPOBASSO, 08/04/2014)

Se l’incendio in ambito condominiale si propaga, invece, da un appartamento privato a quelli limitrofi ed alle parti comuni del Condominio, il regime della responsabilità sarà l’ordinario previsto dall’art. 2043 c.c., qualora derivi dagli impianti privati dell’alloggio o da altra causa ad esso interna (corto circuito dell’impianto elettrico a servizio dell’abitazione privata, una candela lasciata accesa, o la sigaretta sul tappeto …) e dalle successive norme che interverranno se l’evento sarà stato cagionato da un minore, da un dipendente, da un incapace,

sempre che non sia ravvisabile la concorrente responsabilità dell’amministratore con riguardo al suo dovere di accertarsi che dalle opere eseguite nell’ambiente esclusivo non possa derivare danno alle parti comuni del Condominio, responsabilità già prima vista.

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Nella locazione

(1588 perdita e deterioramento della cosa locata

1611 incendio di casa abitata da più inquilini)

Propagazione da impianti dell’unità locata:

Ai sensi dell’art. 1588 del codice civile, il conduttore (inquilino) è responsabile nei riguardi del locatore (proprietario) dei danni causati dall’incendio dell’immobile locato, anche se esso è stato causato da soggetti terzi che egli abbia ammesso all’uso e/o al godimento della casa anche temporaneamente.

La norma non pone, dunque, particolari difficoltà interpretative.

Ritengo, allora, opportuno rassegnarvi, anche in questo caso, un breve corredo giurisprudenziale dal quale sarà possibile trarre spunti di riflessione.

In primo luogo, occorre chiarire che la responsabilità del conduttore si fonda su una presunzione semplice, art. 2729 cod civ., che potrà essere superata, ai sensi dell’art. 2697, mediante la prova contraria in applicazione del regime dell’onere della prova.

A tal proposito, una recentissima sentenza della Cassazione, la … ha stabilito che

Cassazione civile sez. VI – 10/03/2021, n. 6550

In ipotesi di incendio della cosa locata, il conduttore risponde della perdita o deterioramento del bene, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, ponendo l’articolo 1588 del codice civile a suo carico una presunzione di colpa, superabile solo con la dimostrazione di avere adempiuto diligentemente i propri obblighi di custodia e con la prova positiva che il fatto da cui sia derivato il danno o il perimento della cosa è addebitabile a una causa esterna al conduttore a lui non imputabile, da individuarsi in concreto, ovvero al fatto di un terzo, del quale è invece irrilevante accertare l’identità, esulando l’identificazione di tale soggetto dall’attività oggetto della prova liberatoria.

(principio già contenuto in Cassazione civile sez. III – 10/08/2016, n. 16877; Cassazione civile sez. III – 15/12/2015, n. 25221; Cassazione civile sez. III – 27/07/2015, n. 15721;

né rileva se il terzo abbia agito con colpa o con dolo, Cass. Civ. sez. VI – 28/09/2015, n. 19126)

Il principio della presunzione semplice circa la responsabilità del conduttore conduce all’ulteriore corollario per il quale, nell’ipotesi in cui la causa dell’incendio rimanga sconosciuta, egli sarà tenuto patrimonialmente responsabile per i danni arrecati in attuazione della presunzione or ora vista.

Il principio è stato recentemente confermato nella pronuncia

Cassazione civile sez. III – 26/09/2018, n. 22823

L’art. 1588 c.c., in base al quale il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, pone una presunzione di colpa a carico del conduttore, superabile soltanto con la dimostrazione che la causa dell’evento, identificata in modo positivo e concreto, non sia a lui imputabile, onde, in difetto di tale prova, la causa sconosciuta o anche dubbia della perdita o del deterioramento della cosa locata rimane a suo carico. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un caso di allagamento di un immobile, aveva ritenuto integrata la prova liberatoria da parte del conduttore, a fronte della mera allegazione della verosimile rottura di un flessibile di un sanitario del bagno, la quale era però rimasta indimostrata all’esito della disposta consulenza tecnica d’ufficio).

Ultimo corollario del principio in esame è quello per il quale il proprietario, che abbia subito i danni all’abitazione locata derivati dall’incendio procurato dal comportamento di un soggetto terzo che il conduttore abbia ammesso all’uso e/o al godimento anche solo temporaneo (ospite), avrà azione solo ed esclusivamente nei confronti del suo conduttore e non nei confronti dell’ospite, verso il quale sarà il conduttore che dovrà rivalersi ed invocarne la responsabilità con la richiesta di autorizzazione alla chiamata del terzo in causa.

Il principio è confermato in

Cassazione civile sez. III – 14/10/2019, n. 25779

E’ responsabile il conduttore per l’incendio della cosa locata, anche se causato da persone che egli ha ammesso temporaneamente all’uso o al godimento del bene.

È dunque da escludersi che l’occupante dell’immobile cui il conduttore abbia concesso l’uso momentaneo o anche continuativo della cosa locata possa rispondere nei confronti del locatore, se la cosa subisce un incendio, ai sensi dell’art. 2051 c.c., posto che tale norma attiene esclusivamente ai danni causati dalla cosa ai terzi, e non già a quelli che il conduttore causa alla cosa stessa. Ciò detto, e posto che alla fattispecie è riferibile, per contro, l’art. 1588 , si applica chiaramente il comma 2 di tale norma, che rende il conduttore responsabile (nei riguardi del locatore) dell’incendio della cosa locata, anche se causato da persone che egli abbia ammesso, anche temporaneamente, all’uso o al godimento della cosa.

Con riguardo alla previsione di cui all’art. 1611 (Incendio di casa abitata da più inquilini, ho reperito solamente due sentenze, una CdA Bologna del 1980, ed una Trib Parma del 1957 e do lettura delle due massime:

App. Bologna, 29/04/1980

In tema di ripartizione del risarcimento dei danni causati da incendio tra più locatari, pur se ad un primo esame il testo dell’art. 1611 c. c. sembrerebbe doversi interpretare nel senso che gli inquilini rispondono del danno in rapporto non a quello verificatosi nella parte rispettivamente goduta, bensì al valore della totalità della parte medesima (anche se solo parzialmente danneggiata), ove si tenga presente che la norma citata si ricollega al disposto dell’art. 1588 c. c. in tema di responsabilità per perdita o deterioramento della cosa locata (al punto che è stata ritenuta una superflua enunciazione di un principio già discendente da quest’ultima disposizione), è però logica la contraria interpretazione, secondo cui ciascun conduttore risponde in proporzione del danno che, ai sensi del cit. art. 1588 c. c., si presume abbia arrecato alla porzione locata, e non invece in base al valore della porzione stessa (comprensivo anche della parte rimasta indenne, che sul danno non incide); tale ultimo criterio distintivo avrebbe ragione di essere, considerato naturalmente nel rapporto interno tra condebitori, solo ove la responsabilità fosse solidale.

Trib. Parma, 10/12/1957

La responsabilità concorrente degli inquilini verso il locatore, ai sensi dell’art. 1611 c.c., può essere esclusa se si prova che l’incendio è cominciato dall’abitazione di uno degli inquilini; del pari ciascuno degli inquilini può liberarsi da detta responsabilità dimostrando che l’incendio non ha potuto cominciare nella sua abitazione; irrilevante è, invece, la prova che uno degli inquilini era assente.

Il giudizio di verificazione.

Brevi note circa il Giudizio di verificazione per l’evento formativo della Camera Civile del Piemonte e della Valle d’Aosta del 21.09.2021 dal titolo:

LA PERIZIA GRAFOLOGICA ED IL GIUDIZIO DI VERIFICAZIONE”.

(Avv. Mauro Manassero)

La disciplina processuale del giudizio di verificazione è trattata nel nostro codice di rito nei pochi articoli compresi tra il 216 ed il 220.

Prima di affrontare i temi che disciplinano il procedimento, è tuttavia necessario analizzare brevemente le norme contenute negli articoli 214 e 215 c.p.c., che trattano del disconoscimento e del riconoscimento tacito della scrittura privata.

In primo luogo, il giudizio di verificazione è normalmente un sub-procedimento o procedimento incidentale che si inserisce nell’ambito di un giudizio civile principale ed è volto ad accertare l’originalità della sottoscrizione a seguito della sua formale negazione da parte di colui contro il quale essa sia stata prodotta e che, secondo le prospettazioni della controparte, ne è l’autore.

Tale disconoscimento è espressamente previsto dall’art. 214 c.p.c.

Al contrario, ai sensi dell’art. 215, la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta:

– quando la parte comparsa non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione.

– oppure quando la parte, alla quale la scrittura è attribuita o contro la quale è prodotta, è contumace, salva la disposizione dell’articolo 293 terzo comma;

in verità, l’ordine delle preclusioni relative al disconoscimento è previsto nella norma in senso inverso rispetto a quello sopra esposto, ma l’opportunità di tale inversione discende dal fatto che, a differenza di quella della parte costituita, la posizione del convenuto contumace richiede una breve osservazione.

Infatti, a corollario della norma di cui al 215 n. 1) c.p.c., vi è l’eccezione prevista dal terzo comma dell’art. 293 c.p.c. che si verifica quando il contumace si costituisca tardivamente; in tal caso, egli può disconoscere le scritture prodotte contro di lui nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice istruttore; oltre a ciò, qualora la parte sia stata contumace in primo grado avrà la possibilità di disconoscere la scrittura privata contro di lui prodotta nell’atto di appello.

Sul tema, è anche importante analizzare l’art. 292 c.p.c., poiché questo non prevede, tra gli atti che devono essere notificati personalmente al contumace, il verbale in cui si dia atto della produzione della scrittura privata contro il contumace stesso.

Sono stati, dunque, necessari due interventi della Corte costituzionale che hanno sancito l’incostituzionalità del primo comma dell’art. 292 del c.p.c. nella parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui si dia atto della produzione in giudizio della scrittura privata che non sia stata indicata negli atti notificatigli in precedenza (sentenze Corte Cost. 250/1986 e 317/1989). Quindi, se la scrittura in questione sarà stata indicata tra i documenti allegati all’atto di citazione, non sarà più necessaria alcuna notificazione al convenuto contumace.

Passando ora agli aspetti strettamente processuali, il giudizio di verificazione normalmente si inserisce quale procedimento incidentale, ma può anche introdursi come procedimento principale con atto di citazione, ma in questo caso la parte che propone la domanda deve dimostrare di avervi interesse, ad esempio perché intende servirsi della scrittura come prova in eventuali futuri giudizi o come titolo per trascrizioni o iscrizioni. In tale circostanza, se il convenuto dovesse confermare nelle proprie difese l’autenticità della sottoscrizione, le spese del giudizio saranno poste ovviamente ad esclusivo carico della parte che avrà incardinato il procedimento.

Passando all’oggetto della verifica, occorre specificare che per scrittura si intende qualsiasi documento redatto per iscritto (anche se con mezzi meccanici e anche se predisposto, in tutto o in parte, da un soggetto terzo) e sottoscritto con firma autografa. Proprio la sottoscrizione è l’elemento che consente di ricondurre il documento al suo autore

La scrittura può, quindi, essere stata redatta di proprio pugno oppure da una terza persona, anche con software di scrittura e, ad esempio, rientrano tra le scritture private i prestampati che le imprese fanno sottoscrivere ai propri clienti. Infatti, benché il contenuto sia stato interamente predisposto da un altro soggetto, la sottoscrizione apposta in calce rende direttamente riferibile al firmatario l’intero contenuto, come se l’avesse integralmente scritto lui.

È opinione pacifica, in dottrina e giurisprudenza, quella per la quale l’onere del disconoscimento e l’istanza di verificazione non possono avere ad oggetto le scritture private che non siano munite di sottoscrizione (Cass. Civ. 3730/2013; Cass. Civ. 15949/2004), la valutazione delle quali è dunque rimessa al libero apprezzamento del giudice ai sensi dell’art. 116 (Cass. Civ. 1935/1985).

La verificazione è, quindi, destinata ad attribuire alla scrittura ed alla sua sottoscrizione il valore probatorio messo in dubbio dal disconoscimento del presunto autore e ne è corollario la norma di cui all’art. 2702 c.c., per la quale, se il presunto autore ne riconosce l’originalità, la scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta.

In pratica, contro una scrittura privata è possibile difendersi disconoscendone espressamente la sottoscrizione ottenendo così di poter provvisoriamente invalidare il contenuto dell’atto che una parte oppone all’altra, o meglio di sospenderne la valenza probatoria.

La verificazione della scrittura privata, al contrario, è l’antidoto contro il suo disconoscimento: con essa, infatti, la parte che ne ha interesse cerca di “riabilitare” l’atto dimostrando che la sottoscrizione ed il documento sono riconducibili alla parte che l’ha disconosciuta.

Sotto l’aspetto processuale, occorre considerare le opposte posizioni del soggetto che disconosca la sottoscrizione e di quello che invece intenda avvalersene.

Per consolidata giurisprudenza, il disconoscimento è una eccezione in senso proprio ed è, pertanto, soggetta alla disciplina delle preclusioni di cui all’art. 215 c.p.c; quindi esso deve essere chiaramente espresso e formalizzato nella prima udienza o nella prima difesa successiva alla produzione; alla luce della disciplina emergenziale delle udienze in modalità “figurata” si deve quindi ritenere che il disconoscimento debba essere formulato nelle note da depositarsi almeno cinque giorni prima dell’udienza.

Parallelamente, anche l’eccezione relativa alla tardività del disconoscimento è un eccezione in senso proprio e, quindi, non è rilevabile d’ufficio dal giudice ma deve essere sollevata dalla parte che avrà prodotto il documento oggetto del disconoscimento tardivo (Cass. Civ. 10147/2011; Cass. Civ. 9994/2003).

Supponiamo, quindi, che il soggetto presunto sottoscrittore del documento abbia tempestivamente sollevato l’eccezione di disconoscimento. A questo punto, a suo carico non v’è ulteriore attività che debba esser svolta. Infatti, toccherà alla controparte procedere, tempestivamente, al deposito dell’istanza di verificazione nella prima difesa successiva.

Nell’ipotesi che il documento sia stato prodotto con l’atto introduttivo del giudizio, e che il convenuto abbia svolto la propria eccezione nella comparsa di costituzione risposta, sarà quindi opportuno che l’attore proceda al deposito dell’istanza di verificazione, o con le note d’udienza “figurata”, oppure mediante il deposito telematico prima della prima udienza di comparizione, così da porre il Giudice in condizione di conoscere le intenzioni di entrambe le parti già in occasione della prima udienza.

Per ordine del fascicolo, trattandosi di un procedimento incidentale, pare preferibile introdurre il giudizio di verificazione con apposito atto, separato dalle altre difese nel procedimento principale.

Tuttavia, è opportuno segnalare che non mancano pronunce che hanno ritenuto ammissibile, e non tardiva, l’istanza di verificazione anche se formulata successivamente e, in particolare, questi Giudici hanno stabilito che essa può anche esser utilmente introdotta entro il termine perentorio previsto per tutte le altre istanze istruttorie e, quindi, nella seconda memoria ex art. 183 c.p.c. (Cass. Civ. 16915/2011; Cass. Civ. 2411/2005). In ogni caso, onde non correre il rischio che il giudice adito non sposi questa linea e comunque per non complicarsi la vita, è sempre consigliabile proporla immediatamente a seguito dell’eccezione di disconoscimento e con deposito di un atto separato specificamente diretto ad invocare la verificazione.

All’atto della proposizione dell’istanza, la parte ha l’onere di offrire al Giudice i mezzi di prova (ad esempio un testimone che abbia assistito alla sottoscrizione) e producendo, o indicando, le scritture che ritiene utili per la comparazione grafologica.

Tali documenti potranno avere diverso peso nella valutazione a seconda che si tratti di altre scritture private la cui sottoscrizione sia certa (perché già riconosciuta ovvero accertata con sentenza), oppure, ad esempio, che si tratti di atti pubblici nei quali l’autenticità è certificata dal Notaio rogante, o, ad esempio, la firma sulla carta d’identità, che è certificata dal delegato del Sindaco.

Nel caso degli atti pubblici sarà utile indicare il Notaio presso il quale l’atto fu rogato e che pertanto ne conserva l’originale nel proprio archivio.

Occorre precisare, per completezza, che l’art. 216 Cass. Civ. non prevede sanzioni di inammissibilità o nullità dell’istanza di verificazione per il caso della mancata produzione di prove o di documenti per la comparazione e, quindi, se ne desume che esse non siano indispensabili, anche perché le prove utili all’accertamento potrebbero, in ogni caso, emergere dagli atti del giudizio, senza bisogno del compimento di ulteriori attività istruttorie (Cass. Civ. 9523/2007; Cass. Civ. 890/2003).

Nel caso in cui il documento contenente la scrittura privata oggetto del disconoscimento sia stato prodotto in fotocopia, la parte che intenda avvalersene, sarà tenuta a produrne l’originale ai fini della verificazione (Cass. Civ. 24306/2017) ma se il documento originale non fosse in suo possesso, bensì nelle mani dell’avversario, l’istante per la verificazione dovrà chiedere al Giudice l’emissione dell’ordine di esibizione e, se tale ordine non dovesse essere adempiuto, l’esame peritale sarà svolto sulla fotocopia e la parte inadempiente non potrà eccepire in appello la nullità dell’elaborato peritale per essere stata sottoposta all’indagine la sola fotocopia, poiché si tratterebbe di una nullità relativa la cui denunzia è preclusa dall’avervi dato causa (Cass. Civ. 20884/2020).

Ai sensi dell’art. 217 Cass. Civ., il Giudice dispone le cautele per la custodia del documento ed il deposito in cancelleria e, quindi, nomina il consulente tecnico esperto in grafologia e, se e quando occorre, provvede all’ammissione degli altri mezzi di prova che egli ritenga utili per l’accertamento (Cass. Civ. 12695/18).

Il giudice, comunque, non è obbligato a nominare il consulente e la nomina è rimessa alla sua discrezionalità (Cass. Civ. 1282/2003); infatti, la consulenza tecnica grafologica non è un mezzo istruttorio primario ed imprescindibile (Cass. Civ. 8881/2005; Cass. Civ. 3009/2002; anche se di recente contra, Cass. Civ. 2579/2009), il giudice infatti può farne a meno qualora ritenga sufficienti gli altri elementi di prova che le parti gli abbiano offerto e possa, quindi, desumere la veridicità del documento dalla sua comparazione con altre scritture certamente originali e ritualmente acquisite al processo (Cass. Civ. 887/2018). Inoltre, il giudice non è vincolato ad alcuna graduatoria di priorità nel provvedere all’ammissione delle altre prove (Cass. Civ. 29542/2019; Cass. Civ. 6460/2019; Cass. Civ. 15686/2015) e, quindi, potrà rinviare l’esperimento grafologico successivamente all’assunzione delle altre prove, dalle quali potrebbe ricavare gli elementi idonei a rendere superflua la CTU grafologica.

Il giudice è anche libero nello scegliere le scritture di comparazione tra quelle offerte dalla parte ma, in mancanza di accordo delle parti sui documenti comparativi, egli sarà vincolato a ritenere idonee alla comparazione soltanto quella scritture la cui autenticità sia stata previamente riconosciuta in via giudiziale, per autenticazione stragiudiziale (App. Napoli 30.6.2005), per riconoscimento espresso, o tacito nel caso in cui non ne sia mai stata contestata l’autenticità.

Qualora il consulente si sia avvalso di scritture di comparazione non preventivamente indicate dal giudice, ed in mancanza di accordo tra le parti, la nullità della consulenza dovrà necessariamente essere rilevata dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al deposito della consulenza (Cass. Civ. 23851/2011; Cass. Civ. 3009/2002).

L’art. 218 Cass. Civ. non pare presentare elementi di particolare difficoltà interpretativa ed attuativa poiché si limita ad autorizzare il Giudice a richiedere ai soggetti terzi di depositare in cancelleria i documenti di comparazione che giacciano presso depositari pubblici o privati e, in caso l’asporto non sia concesso dalle norme, il giudice provvederà a disporne l’esame presso il depositario, autorizzando a tal uopo il CTU.

L’art. 219 Cass. Civ. prevede che il Giudice ordini alla parte di scrivere sotto dettatura alla presenza del consulente e, così, si crea una situazione che può rasentare il comico poiché la parte, alla quale sia stato ordinato di scrivere, normalmente farà di tutto per vergare delle firme del tutto diverse da quella oggetto della verificazione .. in tal caso, solo l’esperienza e l’astuzia del CTU potranno risolvere la situazione impartendogli precisi ordini di scrittura e giungendo, sostanzialmente, a costringerla a fare una firma il più possibile naturale, nella sua interezza o nei suoi singoli elementi.

Tale ipotesi dovrà comunque esser prevista dal Giudice nell’ordinanza ammissiva dell’esame grafologico.

Ovviamente, se la parte dovesse rifiutarsi di scrivere sotto dettatura o non dovesse addirittura presentarsi all’esame peritale, la scrittura potrà ritenersi riconosciuta, con evidente parallelismo rispetto a quanto accade in caso di mancata comparizione all’interpello.

L’art. 220 Cass. Civ. stabilisce che sia sempre il Collegio a pronunciarsi sulla verificazione, ma il termine “collegio“, tuttavia merita segnalare che tale termine è stato impropriamente conservato dal legislatore pur a seguito della riforma del 1998 e, quindi, deve essere inteso come organo giudicante, sia in composizione monocratica che collegiale, a seconda della materia trattata, infatti, Il giudizio di verificazione non rientra tra le cause che l’art. 50 bis cpc ha riservato al tribunale in composizione collegiale.

Quando l’incidente di verificazione insorga davanti al giudice di pace, la regola di competenza resta identica, in forza dei rinvii di cui all’art. 281 bis e 311 c.p.c., e, quindi, il giudice di pace non può rimettere la decisione sull’incidente al tribunale in composizione collegiale invocando l’art. 220 c.p.c., poiché questo non esprime una regola di competenza. (Cass. Civ. 5929/2012).

La sentenza, a prescindere che si tratti di procedimento principale o incidentale, che si concluda con l’accertamento dell’autenticità della scrittura o della sottoscrizione, conferisce al documento l’efficacia probatoria privilegiata di cui all’art. 2702 c.c. (Cass. Civ. 11674/2008) ed il giudice avrà anche la facoltà di condannare la parte, che avendo disconosciuto la propria scrittura o sottoscrizione, abbia negato l’autenticità del documento, ad una pena pecuniaria che è prevista dalla norma. Tale pena, nel caso in cui la parte disconosca una firma poi risultata effettivamente propria, non pare tuttavia idonea ad indurla al riconoscimento nel timore della sanzione economica, poiché essa va da 2 a 20 euro.

Tuttavia, assai più suggestivo potrebbe essere il timore di subire la condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c. che la Cassazione ha ritenuto ammissibile (Cass. Civ. 163/1989).

Invece, nel caso di esito negativo del procedimento di verificazione, la pronuncia si limita a dichiarare la non riferibilità del documento al presunto sottoscrittore (non la falsità) privando il documento così di qualsivoglia efficacia probatoria e rendendolo, dunque, inutilizzabile, con la conseguenza che esso non potrà neanche essere liberamente apprezzato dal giudice.

Infine, con riguardo al valore probatorio dell’esito del giudizio di verificazione, si segnalano due pronunce della S.C. che paiono meritevoli di attenzione:

In tema di verifica dell’autenticità della scrittura privata, la limitata consistenza probatoria della consulenza grafologica, non suscettiva di conclusioni obiettivamente ed assolutamente certe, esige non solo che il giudice fornisca un’adeguata giustificazione del proprio convincimento in ordine alla condivisibilità delle conclusioni raggiunte dal consulente, ma anche che egli valuti l’autenticità della sottoscrizione dell’atto, eventualmente ritenuta dalla consulenza, anche in correlazione a tutti gli altri elementi concreti sottoposti al suo esame.(Cass. Civ. n. 2579/2009)

Il giudice del merito, benché abbia disposto la consulenza grafica per verificare l’autografia di una scrittura disconosciuta, se l’indagine esperita non è giunta a risultati del tutto rassicuranti, ha il potere-dovere di formare il proprio convincimento sulla base di qualsiasi elemento di prova obiettivamente conferente, quali la prova testimoniale, le presunzioni semplici, comprese quelle desunte da fatti acquisiti a mezzo prova testimoniale, il comportamento processuale delle parti, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria tra le varie fonti di accertamento della verità. (Cass. Civ. n. 14227/1999)

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Avv. Mauro Manassero

Conto corrente condominiale: la richiesta diretta del condomino all’istituto bancario per la copia della rendicontazione periodica

di Mauro Manassero – Avvocato in Torino

In esito alla novella L. 220/2012, l’Arbitro Bancario Finanziario ha reso plurime pronunce sul diritto del singolo condomino ad ottenere la copia della rendicontazione periodica del conto corrente condominiale mediante istanza diretta all’Istituto. Per effetto della nuova formulazione dell’art. 1129 c.c. e della sua entrata in vigore, gli arbitri finanziari hanno mutato il precedente indirizzo, che ammetteva la richiesta diretta, optando per la diversa soluzione dell’istanza mediata dall’amministratore in via preventiva, o addirittura in via esclusiva. Tale scelta, tuttavia, appare non conforme al diritto ed alla ratio della novella.

LA NOVELLA

L’art. 9, comma 1, della L. 220/2012, ha profondamente innovato il previgente art. 1129 c.c. ed il legislatore ha inserito, tra le varie novità, il settimo comma, che recepisce il già consolidato indirizzo di legittimità per il quale la gestione condominiale deve essere improntata al più ampio criterio di trasparenza: “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell’amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica”.

La parte che qui ci interessa è quella inserita nell’ultimo periodo della prefata norma e che prevede il diritto del singolo condomino ad ottenere copia della rendicontazione periodica relativa al conto corrente intestato all’ente di gestione.

Secondo il tenore letterale, ciascun partecipante può rivolgersi all’amministratore per aver copia del documento in questione e la ratio deve essere riconosciuta nel superiore interesse alla trasparenza nella gestione condominiale e nel correlato diritto del singolo condomino di verificare che l’amministratore, nella gestione degli incassi e dei pagamenti eseguiti per conto dell’ente di gestione, rispetti il rigoroso obbligo di transito di ogni somma, sia per posta attiva che posta passiva, sul conto comune. L’esercizio del controllo si estende financo alla verifica della tempestività dei versamenti dei singoli condomini concorrenti, alla eventuale sussistenza di morosità, ed a tutti quegli ulteriori aspetti che possono essere ricavati dall’esame dell’estratto di conto corrente.

La prima parte della norma imperativa, invece, fissa il correlato principio per il quale diviene tassativamente esclusa la facoltà di ogni forma di pagamento che non risulti dalla rendicontazione bancaria e il corrispondente imperativo di versamento sul conto corrente comune di ogni somma incassata, anche per l’ipotesi che i ratei siano pagati dai singoli condomini per somme contanti che, quindi, dovrebbero essere materialmente versate dall’amministratore sul conto corrente.

La complementarietà delle due disposizioni in analisi è destinata, nella loro coordinazione, ad attuare il principio di trasparenza della gestione nella forma più diretta e completa mediante la codificazione del diritto/potere di controllo degli amministrati circa ogni aspetto della gestione finanziaria, ed il Legislatore ne ha fissato il solido principio sia con riferimento ai rapporti tra l’ente ed i terzi fornitori, sia con riferimento ai rapporti tra l’ente ed ogni singolo condomino.

Nonostante l’apparente semplicità e chiarezza del principio contenuto nell’articolo in esame, la sua applicazione ha, tuttavia, determinato la necessità di plurime pronunce ADR con riferimento a quanto dalla norma non espressamente disciplinato, vale dire l’ulteriore ipotesi che il singolo condomino, anziché all’amministratore, si rivolga direttamente all’istituto presso il quale è acceso il conto corrente per chiedere la copia della rendicontazione periodica.

L’argomento non è di secondo rilievo ed il difetto dell’espressa previsione normativa sul punto rende necessario procedere per via ermeneutica al fine di comprendere se la scelta operata dal Legislatore abbia implicitamente presupposto l’accesso immediato, oppure se abbia inteso limitare il diritto del condomino alla forma che preveda l’esclusiva, o la preventiva, istanza all’amministratore.

Prima facie, pare che l’esclusione dell’esercizio diretto costituirebbe un ingiustificato limite nell’accesso al diritto che, invece, nella sua attuazione successiva risulta della massima ampiezza, giungendo financo alla facoltà di controllare ogni singola movimentazione del conto, sia in entrata che in uscita, sia che riguardi singoli condomini, sia terzi estranei all’ente, quali sono i fornitori, con ciò determinando un’ingiustificata soluzione di continuità nell’attuazione del principio al quale la riforma è stata integralmente improntata. Infatti, eventuali aspetti di privacy soccombono rispetto al superiore interesse della trasparenza nella gestione condominiale, come più innanzi meglio affrontato.

Inoltre, nell’ottica della previsione delle ipotesi destinate ad esser regolate dalla norma in esame, l’esclusione dell’istanza diretta comprimerebbe la libertà dell’esercizio del diritto, poiché non può escludersi l’ipotesi per la quale l’esigenza della verifica contabile sia sorta nel singolo condomino per effetto del venire meno del rapporto di fiducia con l’amministratore dello stabile e, data la generale attenzione alle spese determinata dalla congiuntura economica, ben può immaginarsi quante siano le occasioni nelle quali il cittadino, nell’anelito al risparmio ed alla legalità, si risolva a detto controllo rivolgendosi direttamente all’istituto bancario o postale, vuoi per non render nota la verifica all’amministratore, vuoi perché abbia motivo di dubitare dell’autenticità delle copie degli estratti conto consegnategli dall’amministratore, vuoi per altre particolari plurime ipotesi variabili da caso a caso.

LE PRONUNCE DELL’ARBITRO BANCARIO FINANZIARIO

Allo stato, nell’ipotesi che un condomino rivolga la propria istanza direttamente all’istituto bancario e che quest’ultimo non l’accolga e non gli rilasci la copia della rendicontazione del conto corrente condominiale, il primo avrà la facoltà di reagire al diniego mediante il ricorso alla pronuncia dell’Arbitro Bancario Finanziario; infatti, la reintroduzione dell’istituto della Mediazione obbligatoria ante causam ad opera del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla L. n. 98/2013, ha ripristinato la possibilità di soddisfare la condizione di procedibilità mediante il ricorso all’Arbitro Bancario Finanziario in alternativa al procedimento di conciliazione o di mediazione.

Ordunque, plurime sono state le occasioni di pronuncia dell’ABF in fattispecie nelle quali l’istituto aveva reietto l’istanza del condomino, ed assai rilevante è la circostanza per la quale in esito all’introduzione della novella nel diritto condominiale, l’Arbitro abbia mutato il proprio indirizzo negando il diritto del condomino, prima riconosciuto, ad ottenere direttamente dall’intermediario la copia della rendicontazione, con ciò aderendo alla teoria interpretativa restrittiva, per la quale è previsto solo l’esercizio mediato del diritto.

In particolare, ricordato che la novella disciplina del Condominio entrò in vigore il 18 giugno 2013, il percorso delle decisioni dell’Arbitro Bancario Finanziario, che fino ad allora aveva costantemente riconosciuto il diritto dell’accesso immediato1, è radicalmente mutato e, per effetto dell’avvenuta introduzione del settimo comma dell’art. 1129 c.c., le successive pronunce hanno ristretto l’ampiezza del diritto del condomino limitando l’accesso alla documentazione bancaria alla sua forma mediata2.

In verità, il solo Collegio di Roma, pur successivamente alla novella, si è discostato dal nuovo indirizzo e, in data 3 luglio 2014, con la decisione n. 4208, ha riaffermato il diritto all’accesso immediato, pur prevedendo la necessità delle preventiva istanza all’amministratore.

La teoria primigenia trovava fondamento nel consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale “configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, l’esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l’amministratore, non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti, esclusivi e comuni, inerenti all’edificio condominiale”3.

Da tale principio, in applicazione delle norme sul mandato e sulla rappresentanza, consegue che, non solo per indirizzo giurisprudenziale ma per espressa previsione, ogni singolo partecipante è titolare pro quota di ogni posizione giuridica afferente al Condominio, che, quale ente di gestione caratterizzato dalla qualità di mandante/rappresentato, ma nel difetto della personalità giuridica e della separatezza patrimoniale, è null’altro che l’unità costituita dalla somma dei plurimi parziali partecipanti.

Infatti, la conferma di questa evoluzione nel diritto condominiale, risiede nel principio per il quale le obbligazioni verso i terzi contratte dall’amministratore sono direttamente riferibili ai singoli condomini, che ne rispondono direttamente pro quota, fatta salva la residuale ipotesi della solidarietà passiva prevista dall’art. 63 disp. att. c.c. al secondo comma (“I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini”).

Né sarebbe utile ad escludere il diritto all’accesso immediato opporre il richiamo alle norme sulla privatezza, poiché la contitolarità virtuale del rapporto bancario appartenente ai singoli condomini, alla quale corrisponde la spendita del nome del Condominio al solo fine della stipula pur nella consapevolezza che a detta identificazione non corrisponde una persona giuridica, e che al potere di disposizione attribuito al solo amministratore non corrisponde alcun titolo di proprietà sulle somme giacenti, poiché egli solo costituisce la persona fisica alla quale il rapporto è riferibile ai fini gestionali, rende evidente che le movimentazioni oggetto del rapporto di conto corrente, e quindi esposte nella rendicontazione periodica, non concernono aspetti altri e diversi da quelli della gestione dell’ente, sui quali ogni partecipante ha pieno diritto d’informativa. Tant’è che il principio espressamente codificato dal Legislatore sancisce il diritto d’averne la copia.

La tesi restrittiva, che si è sviluppata in esito all’entrata in vigore della novella, ha opposto tuttavia l’interpretazione per la quale il settimo comma dell’art. 1129 c.c. “ha espressamente riconosciuto il diritto di ogni singolo condomino a prendere visione ed estrarre copia della rendicontazione periodica della banca, precisando tuttavia al contempo che detto diritto non può essere esercitato direttamente, bensì solo attraverso l’amministratore” senza, peraltro, chiarire l’origine e la ratio di detta limitazione, né dedurne il percorso logico giuridico che giustificherebbe la compressione del diritto del condomino all’informativa.

COMMENTO CRITICO

In definitiva, quindi, l’opzione di adesione alla teoria estensiva o a quella restrittiva sconta la preventiva scelta di considerare tacitamente presupposta l’esistenza del diritto all’accesso immediato, oppure che questo sia implicitamente escluso dalla locuzione utilizzata dall’estensore della novella (“per tramite dell’amministratore”), alla quale attribuire l’ulteriore significato inteso dagli interpreti (“detto diritto non può essere esercitato direttamente, bensì solo attraverso l’amministratore”).

Ordunque, secondo le regole ermeneutiche (art. 12 delle preleggi), la comprensione del testo normativo non può prescindere da una duplice analisi, quella del tenore letterale e quella dell’intenzione del legislatore.

Per quanto riguarda la prima delle due vie d’indagine, senz’altro l’assenza nel testo di un avverbio limitativo che espressamente escluda ogni altra via d’acquisizione dei documenti bancari (ad esempio, “solo per tramite dell’amministratore”) non depone a favore della teoria restrittiva, né l’interprete può ritenersi autorizzato ad introdurre una normativamente imprevista limitazione del diritto all’ottenimento della copia della rendicontazione.

Sempre con riferimento al dato testuale, appare anche opportuno considerare l’innovazione che ha caratterizzato la norma all’interno della quale il comma in esame è inserito. Infatti, prima della riforma, l’art. 1129 recava il titolo “nomina e revoca dell’amministratore” mentre la novella del 2012 ha introdotto l’ulteriore contenuto obbligatorio (“nomina, revoca e obblighi dell’amministratore”).

Il corpo della norma destinata a tale innovativo contenuto è, infatti, stato elevato dai primordiali 4 commi alla attuale composizione in 16 commi, che prevedono e disciplinano espressamente le obbligazioni alle quali è tenuto l’amministratore nell’esecuzione del mandato di amministrazione, financo pena la revoca. Mentre alcuna parte della disposizione in esame è destinata alla disciplina dei diritti e dei doveri dei singoli condomini.

Ditalché, anche sotto l’aspetto sistematico, appare fragile l’ipotesi per la quale il legislatore avrebbe sottinteso l’esclusione del diritto del condomino alla copia su istanza diretta all’istituto, con conseguente limitazione alla sola ipotesi dell’ottenimento mediato, inserendo tacitamente la relativa disciplina nel corpo di una norma organicamente coordinata con altri e diversi argomenti, quale quella in esame, che è invece integralmente e nominativamente destinata alla elencazione, da considerarsi tassativa, delle obbligazioni gravanti sull’amministratore in virtù del rapporto di mandato.

Inoltre, considerata la diretta riferibilità ai singoli condomini pro quota del rapporto di conto corrente, così come per gli altri rapporti contrattuali stipulati dall’amministratore nell’interesse dell’ente di gestione, e la conseguente applicabilità ad essi del disposto dell’art. 119 T.U.B. sulle comunicazioni periodiche alla clientela, il collegamento sistematico della teoria restrittiva appare ancor più distante.

Tali argomenti, inoltre, si sommano a quelli già compresi nella linea interpretativa primigenia.

Ad ulteriore conferma, successivamente all’entrata in vigore della novella, il Garante della Privacy ha chiarito, con la newsletter n. 387 del 23 aprile 2014, che ogni singolo condomino è titolare di una posizione giuridica che gli consente l’accesso integrale alle informazioni circa le movimentazioni del conto corrente comune, nonché il diritto all’estrazione di copia senza limitazione alcuna; con ciò escludendo l’ipotesi esclusiva dell’accesso mediato.

LA POSIZIONE DELL’ABF SEDE DEL CENTRO ITALIA

Tuttavia, come accennato all’inizio di questo articolo, i Collegi di Milano e di Napoli hanno ormai consolidato il loro indirizzo restrittivo, mentre quello di Roma invece ha ritenuto preferibile mitigare il presupposto carattere limitativo della norma ed ha ritenuto, con la pronuncia n. 4208 del 3 luglio 2014, di interpretare la disposizione “come prescrittiva di un obbligo di preventiva richiesta all’amministratore condominiale …, ma non come preclusiva del diritto del singolo condomino di richiederla ed ottenerla direttamente dall’intermediario in caso di inadempienza dell’amministratore”.

Ordunque, da quanto fin qui esposto non può revocarsi in dubbio che il dibattito sia suggestivo e che, per la sua definitiva soluzione non ci si possa esimere dal concludere con l’analisi del duplice ordine di interessi alla tutela dei quali era in animo del legislatore rivolgere la norma.

Il primo di essi, quale espressamente dichiarato, è l’interesse alla trasparenza nella gestione condominiale, il cui correlato diritto viene attuato mediante la fissazione del diritto alla copia della documentazione, e l’accettazione dell’inevitabile sacrificio dei qui minori rilievi di privacy; il secondo deve essere identificato con l’interesse dell’amministratore ad esser fatto destinatario di una disciplina chiara, esaustiva e tassativa che determini con precisione le obbligazioni delle quali egli è gravato, ed a tal fine la norma fu edita anticipandone financo il contenuto nel titolo.

Da ultimo, posto che l’Ordinamento non attribuisce all’Arbitro il potere di comprimere od attenuare il diritto fissato dal legislatore, ne deriva che l’interposizione della preventiva richiesta o, addirittura, la negazione del diritto all’accesso diretto, attuati mediante un obiter dictum, si risolve in una indebita attenuazione e compressione del diritto al controllo della gestione comune che, come esplicitato, costituisce la ragione prima del principio di trasparenza al quale la riforma è stata improntata. Oltre a ciò, l’indebita interposizione di imprevisti ostacoli all’esercizio del diritto mediante il reinserimento del diaframma rappresentato dall’amministratore, sia in via preventiva che esclusiva, si risolve sostanzialmente in un inaspettato concorso all’attività ostativa eventualmente posta in essere dall’amministratore stesso ove la ragione che muove il condomino al controllo fosse fondata ed effettiva; infatti, la reiezione dell’istanza diretta avrebbe come primo effetto proprio quello di tardare, o addirittura impedire, la verifica da parte dell’avente diritto, con ciò prestando indebito concorso all’attività del mandatario infedele. In tale ottica, le richiamate pronunce non solo appaiono non conformi al diritto, ma financo svianti dell’interesse pubblico sotteso alla tutela dei diritti dei condomini/mandanti per i quali, invece, il legislatore pare abbia inteso approntare garanzie di verifica e controllo prima inesistenti. In tale ottica, ancor più inadeguata risulta la soluzione proposta dall’ABF in seguito all’entrata in vigore della novella, poiché non può ammettersi che la nuova norma sia stata destinata a comprimere un diritto che, prima dell’introduzione del settimo comma dell’art. 1129 c.c., riceveva maggior tutela proprio dai medesimi Arbitri che ora, invece, hanno mutato segno.

Ditalché, pare allo scrivente, che si debba concludere per l’interpretazione che ammette la legittimità della richiesta diretta, e che esclude anche l’obbligo della preventiva istanza rivolta all’amministratore; tale soluzione appare non solo più conforme alla tutela di detti interessi, ma anche sistematicamente coerente sia con la collocazione della disposizione nel combinato disposto che tassativamente elenca le obbligazioni gravanti sull’amministratore in virtù del contratto di mandato, sia con l’esigenza di tutela della trasparenza che, in difetto, sarebbe gravemente limitata dall’obbligo della preventiva istanza, o addirittura esclusa, se invece si ammettesse il solo diritto di accesso mediato.

1 Decisioni: Milano 19 aprile 2011, n. 814; Napoli 17 aprile 2012, n. 1154, Milano del 15 ottobre 2012, n. 3259, Milano del 6 marzo 2013, n. 1282, Milano 27 giugno 2013, n. 3478.

2 Decisioni: Milano 22 gennaio 2014, n. 400, Napoli 25 marzo 2014, n. 1797, Milano del 30 luglio 2014, n. 4947, Milano 24 settembre 2014, n. 6193.

3 Ex plurimis, Cass. n. 7300/2010, Cass. n. 1011/2010, Cass. n. 3900/2012, Cass. n. 4991/2012.

Quando il sinistro capita all’estero.

Lo sci è una delle principali occasioni di attività ludico sportiva tra quelle che sono praticate in modo turistico ed è’ ormai normale che uno sciatore italiano frequenti le piste di località sciistiche estere. Inoltre, molte sono le stazioni che condividono un “confine sciistico” con stazioni site nei paesi confinanti. Lo sviluppo che il turismo sciistico ha vissuto nell’ultimo ventennio ha però portato con sé l’ovvia conseguenza di ipotesi di sinistri in terra straniera, e ciò comporta gravi complicazioni sia per quanto riguarda i rapporti assicurativi, sia per altri aspetti dei quali, non sempre, ci si cura nell’analisi immediata, ma che si rivelano determinanti nell’accertamento delle responsabilità, del diritto al risarcimento e della sua quantificazione.

Nel recentissimo caso di una sciatrice italiana, che nel 2014 si procurò delle lesioni nello scendere da una seggiovia in Francia, l’infortunata ha intrapreso una singolare azione giudiziale invocando, per l’accertamento dell’eventuale responsabilità della stazione sciistica, l’applicazione della legislazione italiana speciale destinata ai gestori degli impianti. Tale scelta è stata determinata dal fatto che le norme italiane sono assai più severe di quelle francesi e, a seconda della legge applicata, la sciatrice avrebbe avuto diritto ad un risarcimento, nel primo caso, o non vi avrebbe avuto diritto, nel secondo. Quindi, l’individuazione della legge applicabile al caso e l’identificazione del Tribunale competente a celebrare il processo si sono rivelati aspetti decisivi per poter accertare l’esistenza e la misura del danno.

La prima applicazione al mondo dello sci della competenza del Tribunale di residenza dell’infortunato nell’ambito di un sinistro avvenuto all’interno del confine nazionale, è stata oggetto di una sentenza emessa nel 2011 dal Tribunale di Napoli che, per la prima volta, ha riconosciuto allo sciatore infortunato la tutela propria del consumatore ed ha applicato la regola per la quale, nel confronto tra il consumatore ed il professionista, il processo debba svolgersi presso il Tribunale del luogo ove il primo è residente; ciò, ovviamente, per eliminare ostacoli e costi che l’infortunato affronterebbe se il processo dovesse svolgersi presso il Tribunale del luogo ove è accaduto l’infortunio, che può esser anche molto distante dalla residenza dello sciatore.

La norma applicata dal Giudice di Napoli, che è contenuta nell’art. 66 bis del Decreto Legislativo 6 settembre 2005 n. 206 (“Codice del Consumatore”), costituisce tuttavia attuazione all’interno dei confini nazionali del medesimo principio previsto in sede europea.

Quindi, la sciatrice della quale si parlava all’inizio dell’articolo, ha invocato l’applicazione della norma europea al suo caso e, in base al trattato UE denominato “Roma I”, approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio d’Europa nel 2008, ha citato in giudizio il gestore della stazione sciistica francese nel Tribunale della città italiana ove ella è residente.

In base al Regolamento UE, infatti, il soggetto che svolga un attività non a scopo professionale (ad esempio, uno sciatore che pratica l’attività per sport) per la quale concluda un contratto con un soggetto che, invece, svolga tale attività professionalmente (ad esempio, il contratto di skipass con la stazione sciistica), gode di una protezione speciale, poiché si trova in posizione di “debolezza” contrattuale ed economica rispetto alla sua controparte.

In tal modo, la nostra sciatrice infortunata ha potuto intraprendere il processo nella sua città di residenza chiedendo, inoltre, l’applicazione al caso specifico delle norme italiane, sia per quanto riguarda la responsabilità del gestore, sia per quanto la garanzia di protezione che il gestore della stazione deve apprestare per i suoi clienti secondo le norme nazionali, ed anche per quanto riguarda le tabelle utilizzate per la parametrazione economica dei punti di invalidità derivati dal sinistro.

Il Tribunale di Torino, con sentenza dell’agosto 2018, ha per la prima volta applicato questi principi ad un sinistro internazionale occorso ad una sciatrice torinese che si era infortunata nel corso di una giornata sciistica in una stazione francese.

In applicazione delle richiamate norme il processo, in sede civile ed al solo fine risarcitorio, si è svolto presso il Tribunale di Torino, secondo la giurisdizione italiana, presso il Tribunale del luogo ove la sciatrice era residente, con applicazione delle norme italiane alla stazione sciistica francese.

Poniamo ora l’ipotesi inversa rispetto alle precedenti, ovvero quella in cui uno sciatore straniero sia vittima di un infortunio sulle piste o sugli impianti di una stazione italiana, le norme sopra richiamate dovranno esser applicate nel senso inverso, ovvero, mentre secondo la prassi fino ad oggi in uso, lo straniero potrebbe chiamare in giudizio la stazione sciistica innanzi al Giudice italiano e, quindi, ricevere per il risarcimento civilistico le tutele proprie dell’ordinamento italiano benché l’infortunato provenga in realtà da una nazione altra e diversa dall’Italia, sulla base di queste nuove applicazioni ed interpretazioni della legislazione europea, il processo civile dovrebbe essere celebrato presso il Tribunale della città dalla quale lo straniero proviene, con applicazione delle leggi dello stato al quale egli appartiene.

Un problema sorge, tuttavia, nel rapporto con la responsabilità penale, poiché la legge processuale prevede che, per i processi relativi ad eventi dai quali siano derivate lesioni o morte, sia competente il Giudice del luogo ove è accaduto il fatto lesivo. Quindi, per quanto concerne la responsabilità penale non è neppure ipotizzabile il trasferimento all’estero del giudizio, ma considerato che, nella maggior parte dei casi, la liquidazione del danno in sede penale si limita a somme provvisionali, con necessità per il danneggiato di instaurare un successivo giudizio in sede civile per ottenere il completo risarcimento, ne deriva che in questa seconda fase la stazione sciistica potrebbe invocare, al fine della determinazione del danno in sede civilistica, la giurisdizione dello stato dal quale lo sciatore infortunato proviene e l’applicazione delle leggi di quello stato.

A ben vedere, quindi, in questo caso gli sciatori e le stazioni sciistiche italiane, ponendosi in confronto a livello europeo sotto l’aspetto della responsabilità internazionale, traggono vantaggio dalla severità della legislazione italiana destinata alla protezione ed alla sicurezza degli sciatori e, per questi aspetti, si rivelano assai più tutelati rispetto agli altri europei; ma i due casi esposti, quello della sciatrice e quello della sentenza del Tribunale di Napoli, sono solo i primi sintomi della necessità sempre più evidente di un diritto europeo della neve, che regoli in maniera uniforme le responsabilità derivanti dalla pratica sportiva, quantomeno, negli stati che condividono i “confini sciistici” posti sui versanti dell’arco alpino.

Non tutti i pali vanno abbattuti. Il sinistro sciistico da impatto contro ostacoli.

Il sinistro da impatto contro ostacoli rappresenta una delle più frequenti cause di lesioni a sciatori e l’accertamento della responsabilità, anche ai fini assicurativi, comporta la considerazione di più principi che lasciano, comunque, all’interprete un margine di discrezionalità che consente di adeguare la previsione normativa al caso concreto. Le norme che intervengono nel caso degli impatti sono contenute, in via generale, nella L. 363/2003 e, in via particolare, nelle singole leggi regionali. In questa sede, dato il carattere generalista, saranno analizzate le norme nazionali.

La prima disposizione che ci interessa è l’art. 3, che così stabilisce “I gestori assicurano agli utenti la pratica delle attività sportive e ricreative in condizioni di sicurezza, provvedendo alla messa in sicurezza delle piste secondo quanto stabilito dalle regioni. I gestori hanno l’obbligo di proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo le piste mediante l’utilizzo di adeguate protezioni degli stessi e segnalazioni della situazione di pericolo”. La Legge è quindi chiara nell’attribuire al gestore l’obbligo di adottare le misure necessarie affinché gli ostacoli, naturali o artificiali, presenti sulle piste da sci non costituiscano fonte di pericolo per gli sciatori; cautele che, ovviamente, consistono nell’apposizione di materassi e nell’utilizzo di materiali in grado di attutire, o escludere, gli impatti contro manufatti (sistemi di innevamento, pali, etc), oppure nella rimozione di quegli ostacoli che non siano suscettibili di protezione o non siano funzionali all’attività (rocce, tronchi, etc), oppure, in via residuale, nella predisposizione di segnaletiche che avvisino della presenza dell’ostacolo. Corollario a questa norma è la successiva disposizione prevista all’art. 4, che fissa in capo al gestore la responsabilità civile per i danni che possano derivare agli sciatori qualora le piste non presentino le condizioni di sicurezza.

Tuttavia, questi principi devono essere contemperati con l’ulteriore obbligo dei fruitori delle piste di adottare, a loro volta, le cautele opportune così da non esser essi stessi causa del proprio danno e, quindi, il Legislatore ha stabilito, all’art. 9, che “gli sciatori devono tenere una condotta che, in relazione alle caratteristiche della pista e alla situazione ambientale, non costituisca pericolo per l’incolumità altrui” e che “la velocità deve essere particolarmente moderata nei tratti a visuale non libera, in prossimità di fabbricati od ostacoli, negli incroci, nelle biforcazioni, in caso di nebbia, di foschia, di scarsa visibilità o di affollamento, nelle strettoie e in presenza di principianti”.

Quindi, nel caso di un impatto contro un ostacolo, saranno valutati sia le caratteristiche della pista e dell’ostacolo, sia gli adempimenti posti in essere dal gestore al fine di proteggere l’utente, e sia la condotta tenuta dallo sciatore e, in particolare, la sua velocità.

La giurisprudenza è ricca di casi nei quali i Giudici hanno correttamente ed attentamente applicato questi principi e, a seconda del risultato delle indagini, hanno attribuito talvolta al gestore e talvolta allo sciatore, la responsabilità del sinistro.

Per fare alcuni esempi, nel 2013 la Corte di Cassazione ha stabilito che perché si possa configurare una responsabilità del gestore è necessario che l’infortunato dimostri “l’esistenza di condizioni di pericolo che rendano esigibile, sulla base della diligenza richiesta, la protezione da possibili incidenti”; dall’altro lato, che il gestore dimostri “la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo”. Sulla scorta di questi due principi, la Corte ha escluso la responsabilità del gestore a causa della “non sussistenza della situazione di pericolo stante la larghezza della pista, la mancanza di curve, la visibilità, la mancanza di pendenza verso l’esterno, oltre che la condotta colposa del danneggiato identificata nella eccessiva velocità” che aveva condotto lo sciatore ad impattare contro una staccionata che delimitava la pista da una retrostante scarpata, procurandosi gravissimi danni.

In un altro caso, il Tribunale ha invece ritenuto responsabile il gestore della pista per l’impatto subito da uno sciatore contro un palo di legno, di circa cm. 20 di diametro e sporgente dalla neve di due metri, che era stato collocato a tre metri dal bordo della pista. In questo caso, il Giudice, benché la fila di pali avesse la funzione di segnalare il tracciato ai battipista, ha comunque ritenuto responsabile il gestore perché, considerato che la pista era di grado difficile (pista nera), molto pendente, e sita a considerevole altitudine, avrebbe dovuto prevedere la possibilità della caduta degli sciatori ed il loro scivolare fino ad oltre il margine della pista, con conseguente possibilità ed inevitabilità dell’impatto. Avrebbe, quindi, dovuto proteggere l’ostacolo con i regolari materassi. In un altro caso, il Tribunale ha condannato il gestore per i danni subiti da una sciatrice che era rovinosamente caduta, con produzione di gravi lesioni, per aver impattato contro una roccia di circa cm. 20 di diametro e sporgente per cm. 15 dal manto nevoso; infatti, secondo l’implicito dovere di costante controllo delle condizioni della pista, il gestore avrebbe dovuto tempestivamente e prontamente intervenire per segnalare e, successivamente, rimuovere l’ostacolo così da escludere la fonte di pericolo per gli sciatori.

Infine, v’è l’ipotesi intermedia, cioè quella in cui vi sia corresponsabilità per il sinistro. Il Tribunale ha ritenuto che uno snowborder, avventuratosi nel fuori pista a cinque metri dal bordo e caduto andando a cozzare contro dei blocchi di cemento seminascosti nella neve nei pressi di una casetta, abbia concorso nella misura dell’80 % alla produzione del danno subito, perché i blocchi erano al di fuori della pista, perché era scarsamente prevedibile, da parte del gestore, che uno sciatore si avventurasse in quella direzione, e perché lo snowborder si era volontariamente diretto nel fuoripista; tuttavia, ha condannato il gestore, manlevato dall’assicurazione, al risarcimento del 20 % del danno, perché l’aver collocato in quella posizione i blocchi aveva comunque colposamente aggravato il pericolo connesso alla fuoriuscita dalla pista, che avrebbe potuto accadere anche in modo accidentale. In definitiva, ogni sciatore è consapevole dei rischi impliciti nell’attività sciistica, occorre quindi prestare attenzione a non aggravarli con comportamenti eccessivamente arditi.

L’origine del “decalogo dello sciatore”.

Molti sciatori sono a conoscenza delle norme comportamentali che sono previste negli art. da 8 a 19 della L. n. 363/03. Tuttavia, non molti sono quelli che conoscono della loro origine e questo articolo ha lo scopo di ripercorrere la storia delle regole a far data dalla loro prima ipotesi e per giungere fino alle attuali previsioni normative. Infatti, in alcune edizioni esse erano corredate di estese spiegazioni per la loro interpretazione; mentre le attuali norme di legge, come tali, sono sintetiche. Gli originari chiarimenti, però, sono ancora utili al fine di consentire la corretta interpretazione da parte dei soggetti che devono curarne il rispetto e, quindi, dei Giudici, dei maestri di sci, dei responsabili degli sci club, e di tutti coloro che desiderano praticare lo sci con coscienza.

Le attuali norme traggono origine dal “Decalogo dello sciatore” che è assai diffuso e che è stato pubblicato in numerosissimi siti.

La prima stesura del Decalogo fu su iniziativa della sezione di La Spezia del Panathlon International, associazione con finalità etiche e culturali che si propone di diffondere i valori dello sport, e fu adottato nel settembre 1963 e proposto a 16 stazioni sciistiche delle Alpi. Si trattò quindi di un diritto “che nasce dal basso”, nel senso che, anziché essere imposto da un organo legislativo al fine di disciplinare un aspetto della vita sociale, fu il prodotto di una spontanea autoregolamentazione resa necessaria dalla crescente diffusione della pratica sportiva.

Tale iniziale stesura fu approvata nell’aprile del ’67 dal comitato giuridico della FIS riunito a Parigi, e poi adottato, il 19 maggio dello stesso anno, dall’assemblea generale FIS di Beirut.

Il decalogo iniziale fu aggiornato nel Congresso di Famagosta del ’73, integrato nel 1990 e, infine, la stesura definitiva intervenne al congresso di Portorose nel 2002.

Nel 2003, il nostro legislatore ha adottato molte di queste regole nella compilazione degli articoli da 8 a 19 della L.363 ma, come sopra ho detto, la FIS era andata oltre, ed aveva provveduto alla redazione dei chiarimenti necessari per correttamente interpretare le regole del decalogo.

Quindi, in questa sede, appare opportuno integrare la conoscenza delle norme di legge con i chiarimenti delle regole FIS che furono edite a Famagosta nel 1973.

La prima regola (“regola 0”) stabilisce che la pratica dello sci comporta l’assunzione di rischi e di responsabilità, sia civili che penali, che possono essere escluse solo nell’ipotesi che lo sportivo rispetti le regole comportamentali. La regola n. 1, fissa l’importantissimo, ma spesso dimenticato, principio per il quale ogni sciatore deve avere rispetto degli altri e deve, quindi, comportarsi in modo da non essere fonte di pericolo. Le regola n. 2, stabilisce che ogni sciatore deve tenere una velocità ed un comportamento adeguati alla propria capacità ed alle condizioni generali della pista. Inoltre, nelle note del 1973, gli estensori specificarono che su una pista ripida (nera, rossa) è normale che vi siano buoni sciatori e che le velocità siano generalmente alte; mentre è normale che su una pista facile (verde, blu) si incontrino sciatori alle prime armi e, quindi, la velocità deve essere moderata. Particolare interesse suscita, poi, l’ulteriore specificazione che il dovere di prudenza e l’osservanza delle regole diventano categorici per gli sciatori che “creano intralcio alla circolazione procedendo lentamente su una pista veloce, o veloci su una pista lenta”.

Per quanto riguarda la scelta della direzione, regola n. 3, ferma restando la “priorità” dello sciatore che si trova a valle, risulta tuttavia che tale preferenza sia comunque subordinata alle traiettorie ed alle “evoluzioni normalmente prevedibili” poiché se è ben vero che lo sci è uno sport particolarmente adatto per compiere evoluzioni, è altrettanto vero che esse devono essere compiute non già secondo un criterio di assoluta ed illimitata libertà, ma sempre nel rispetto delle regole di condotta, che impongono cautela e prudenza in proporzione al tipo di pista, alla qualità della neve, alla visibilità, all’affollamento.

Per quanto riguarda il sorpasso, regola n. 4, esso va compiuto da qualsiasi parte, destra o sinistra, a monte o a valle, ma deve essere sempre ad una distanza tale da non costituire pericolo per lo sciatore sorpassato.

La regola n. 5 fissa il comportamento da tenere negli incroci e al momento delle ripartenze; infatti, è necessario che chi si immette o riparte verifichi sempre di non intralciare il percorso di altri sciatori che provengano da monte.

Particolare riguardo è dedicato alle soste, poiché la regola n. 6 dice chiaramente che lo sciatore “deve evitare di fermarsi, se non in caso di assoluta necessità, sulle piste e in specie nei passaggi obbligati o senza visibilità” e, in caso di caduta, “deve sgomberare la pista al più presto possibile”; infatti, il trattenersi in sosta su una pista crea una situazione di intralcio alla circolazione. Quindi, la sosta deve essere effettuata a bordo pista, e non certo nel centro, o sotto un cambio di pendenza. Assai importante è l’ultimo paragrafo, ove è stabilito che, sul piano giuridico, la sosta rappresenta un fatto imprevedibile se effettuata in punti ove la visibilità è ridotta o compromessa (curve, dossi, cambi di pendenza) poiché le stesse traiettorie dello sciatore che giunga da monte, benché nel rispetto delle regole, potrebbero costituire fonte di pericolo per lo sciatore che si sia fermato ove non si deve.

Le successive regole, la n. 7 e la n. 8, riguardano la risalita delle piste, vietata dall’art. 15 della L. 363 (fatta salva l’ipotesi che sia espressamente autorizzata dal gestore degli impianti) ed il rispetto della segnaletica; non rivestono quindi elementi tali da richiedere un’analisi specifica.

Mentre assai importanti sono le ultime due, la n. 9 e la n. 10, perché riguardano il caso di incidenti. Ordunque, la prima stabilisce un generale obbligo di prestare aiuto agli infortunati, trasposto nell’art. 14 della L. 363, che punisce gravemente l’omissione di soccorso; la seconda fissa l’obbligo di identificazione di chi è coinvolto in un sinistro o di chi ne sia testimone. Infatti, nella nota a chiarimento, l’estensore fu assai esplicito nello stabilire che la relazione dei testimoni è di grande importanza per l’accertamento delle responsabilità, e che risponde ad un dovere, civile e morale di persona cosciente dei propri doveri, quello di rendersi disponibile per descrivere l’evento al quale si è assistito.

Terminata l’analisi dei chiarimenti FIS, risulta che, in effetti, non vi sia principio che non risponda ad un generale buon senso, e che le regole corrispondano, né più e né meno, a ciò che ci si aspetterebbe da una persona cosciente e consapevole. Tuttavia, coloro che frequentano assiduamente le piste sono consci che, ormai, ci si imbatte sempre più spesso in comportamenti che lasciano seriamente dubitare delle capacità intellettive di coloro che li tengono; penso ad improvvisati insegnanti familiari che portano piccoli bambini su piste nere, o che snodano serpentoni, formati da due o tre figli e dalla moglie, attraversando la pista da un bordo all’altro, senza curarsi minimamente del pericolo che con tale comportamento determinano prima ancora per i propri cari che per gli altri sciatori. O ancora, alle file di sciatori e snowborder che sostano, come passeri sul cavo elettrico, subito sotto un cambio di pendenza, o dietro una curva. Purtroppo son proprio questi comportamenti, contrari sia alla legge che alle regole FIS, che nella maggior parte dei casi causano infortuni e che impegnano i Tribunali per anni.

Quindi, ben venga il corretto accertamento delle responsabilità quando vi sia un infortunio, ma sarebbe ancor meglio se, rispettando tutti le regole, quello sciatore non si fosse fatto male, ed avesse felicemente concluso una bella giornata di sci.

Noleggio sci da discesa e responsabilità.

Negli ultimi anni, l’attività di noleggio delle attrezzature sciistiche, sia per singole giornate o per più lunghi periodi, ha largamente superato, quanto a numeri, quella di vendita. L’espansione commerciale di tale tipo di attività ha reso sempre più frequente l’ipotesi di sinistri occorsi a sciatori nell’utilizzo di sci e scarponi noleggiati, con l’inevitabile conseguenza dell’insorgere della necessità di approfonditamente analizzare il regime di responsabilità al quale i noleggiatori sono sottoposti, e quali siano i corrispondente diritti ed obblighi degli sciatori.

Questo articolo si propone, quindi, di offrire al lettore un’informazione di massima, e senza pretesa d’esaustività, circa gli aspetti ai quali sia l’utente, che il noleggiatore, devono prestare particolare attenzione.

In via generale, sotto l’aspetto strettamente giuridico, il contratto di noleggio è contratto “atipico” poiché non è espressamente regolato dal Codice Civile e la sua disciplina è generalmente mutuata dalle norme dettate per la locazione di beni mobili, alla quale il noleggio è assai prossimo.

L’esecuzione del contratto prevede che una parte (il noleggiatore) metta a disposizione e conferisca in godimento un determinato bene mobile ad un’altra parte (il noleggiante), e quest’ultima se ne può servire per un periodo di tempo determinato, verso il pagamento di un corrispettivo, con l’obbligazione di restituire il bene al termine del periodo di tempo pattuito per l’utilizzo.

Sul noleggiatore e sul noleggiante incombono degli obblighi che derivano dalla stipula del contratto e, in via generale e per osservare solo ciò che qui è di interesse, il noleggiatore deve consegnare al noleggiante il bene in buono stato di manutenzione, funzionante, idoneo ad essere utilizzato per l’uso convenuto (c.c. art. 1575 – 1578). Il noleggiante, invece, è tenuto a servirsi del bene esclusivamente per l’uso convenuto, deve conservarlo con la diligenza del “buon padre di famiglia”, deve restituire il bene al termine del periodo di noleggio nelle medesime condizioni in cui lo ricevette e deve, ovviamente, pagare il corrispettivo concordato (c.c. art. 1587).

Visti in via generale, i rispettivi doveri, ed i corrispondenti diritti dell’altra parte, risultano assai semplici da comprendere, ma il discorso cambia ove alcuni di essi siano analizzati nel particolare. Infatti, mentre è intuitivo cosa si intenda per “consegnare il bene”, “buono stato di manutenzione”, “conservare diligentemente”, “pagare il corrispettivo”, assai più arduo è invece intuire cosa si intenda per “idoneità all’uso convenuto”.

Per quanto concerne l’uso, è ovvio che si tratti dello sci da discesa e, pertanto, lo sci deve essere dotato delle caratteristiche fisiche necessarie affinché possa essere utilizzato in sicurezza a tale scopo e, quindi, la soletta deve essere ben mantenuta e sciolinata, le lamine affilate e assolutamente prive di ruggine, la misura dell’asta deve essere proporzionata alle caratteristiche dell’utente, ed il tipo di sci deve o corrispondere alle espresse richieste dell’utente, oppure esser dal noleggiatore consigliato a seguito di specifica richiesta del cliente (va da sé che uno sciatore esperto saprà quale sci desidera noleggiare, mentre uno sciatore principiante avrà necessità d’esser consigliato dal negoziante circa lo sci da utilizzare per le sue prime esperienze).

Gli aspetti fin qui visti non esauriscono, tuttavia, il concetto di “idoneità” che, infatti, deve essere applicato anche agli attacchi presenti sullo sci e che, oltre ad essere in buone condizioni di manutenzione, dovranno anche essere correttamente regolati.

Questo è l’aspetto più rilevante: la valutazione dell’idoneità non concerne solamente le condizioni materiali del bene (dal difetto delle quali può discendere la responsabilità del noleggiatore: vedasi ad esempio la sentenza 20.03.2014 con la quale il Tribunale di Trento ha condannato il noleggiatore per la rottura dell’attacco), bensì riguardano anche gli aspetti di diritto che disciplinano il bene e, nel caso della regolazione degli attacchi, interviene la norma ISO 11088.

Il sistema di regolazione degli attacchi è standardizzato e comune a tutte le marche ed è il prodotto dello studio della più autorevole organizzazione mondiale per lo studio e per la redazione delle norme tecniche, l’ISO (International Standard Organization), che, sulla base degli approfonditi studi di esperti del settore sci e di medici specialisti, ha compilato ed emanato la norma tecnica destinata proprio allo scopo di fissare i criteri standard di regolazione degli attacchi sciistici al fine della prevenzione degli infortuni agli arti inferiori.

In particolare, la norma tecnica in esame fa riferimento ai seguenti parametri propri dello sciatore: età; capacità sciistica (principiante/intermedio/esperto); altezza; peso; lunghezza della suola dello scarpone.

Quindi è onere del noleggiatore, affinché il bene che lui consegna (sci) al fine dell’utilizzo convenuto (discesa) sia idoneo a tale scopo, provvedere alla perfetta regolazione dell’attacco in esecuzione della norma ISO 11088.

L’aspetto in questione è di centrale rilevanza poiché riguarda la gran parte delle ipotesi di responsabilità dei noleggiatori che occupano le aule dei tribunali e gli uffici delle assicurazioni.

Senz’altro la categoria dei professionisti che si dedicano all’attività di noleggio è assai attenta all’aspetto oggetto di questo articolo e la regolazione degli attacchi è presumibile che sia quasi sempre corretta e conforme alla norma, ma può non si può escludere aprioristicamente che l’operazione materiale della regolazione non sia stata posta in essere dal noleggiatore in persona, ma che sia stata demandata, ad esempio, ad un commesso dipendente stagionale, magari ignaro della norma ISO 11088. Ebbene, in questo caso, laddove il cliente dovesse infortunarsi nel corso della giornata sciistica a causa del difetto di regolazione degli attacchi, e risultasse da esame tecnico che questi erano stati effettivamente regolati in maniera difforme rispetto a quanto stabilito nella norma ISO 11088, allora il noleggiatore dovrà rispondere dei danni, fisici e patrimoniali, riportati dall’utente ed una simile ipotesi potrebbe assorbire l’intero guadagno della stagione.

Senz’altro, alcuni accorgimenti pratici possono porre il noleggiatore al riparo dagli inconvenienti e così il compilare e far sottoscrivere una scheda con i dati del cliente ed i suoi parametri (età; capacità sciistica; altezza; peso; lunghezza della suola dello scarpone) e verificare, prima della consegna degli sci, che la regolazione degli attacchi corrisponda a quanto previsto nella tabella della norma ISO 11088, sono minime attività che consentono, tuttavia, di escludere quasi del tutto le ipotesi di responsabilità.

Il rapporto d’intervento dei soccorritori nei sinistri sciistici

La fase istruttoria dei processi che hanno ad oggetto l’accertamento delle responsabilità nei casi di incidenti sciistici è determinante. L’argomento è assai rilevante perché la disponibilità e l’assunzione delle prove è spesso difficoltosa; infatti, i procedimenti giudiziari conseguenti ai sinistri sciistici scontano assai spesso l’ostacolo relativo alla prova dei fatti e delle circostanze nelle quali si è verificato l’incidente.

Le prove necessarie per la ricostruzione dei fatti possono consistere in testimonianze, fotografie, filmati e, in particolare, può essere determinante il rapporto d’intervento dei soccorritori. Infatti, la loro relazione può avere grande rilevanza perché contiene informazioni che consentono al giudice, ed ai difensori, di considerare provati gli aspetti ivi descritti, esonerando così l’infortunato da offrire la prova, spesso assai ardua, delle circostanze del sinistro.

Ai sensi dell’art. 358 Codice Penale, il soccorritore è soggetto privato incaricato di pubblico servizio; l’Ordinamento attribuisce tale qualifica a coloro che, pur al di fuori di qualsiasi vincolo con l’autorità o con la pubblica amministrazione, prestano un pubblico servizio in favore della collettività. Infatti, il Legislatore, secondo l’orientamento della Cassazione (sent. 6687/97), intende il concetto di “pubblico servizio” in senso oggettivo e non strettamente connesso con il rapporto di dipendenza da un ente pubblico e considera primariamente la natura pubblicistica dell’attività svolta dal volontario che, infatti, agisce nell’interesse della collettività.

Tale condizione non parifica i soccorritori ai pubblici ufficiali, poiché questi hanno ulteriori poteri autoritativi e certificativi che i soccorritori non hanno e, per esempio, il soccorritore può chiedere all’infortunato, alle persone coinvolte nel sinistro ed ai testimoni, le generalità e l’esibizione dei documenti d’identità, ma non può pretenderne la consegna.

Per lo stesso motivo, il verbale d’intervento non può essere oggetto di querela di falso, poiché non si tratta né di atto pubblico, e né di scrittura privata autenticata, bensì di mera dichiarazione di scienza, seppur assistita dalla particolare competenza del soccorritore.

Quindi, sotto l’aspetto giuridico, le informazioni esposte dal soccorritore nel verbale d’intervento assumono il valore di dichiarazione di conoscenza di un determinato evento e, pertanto, acquisiscono natura esclusivamente testimoniale; quindi, il soccorritore potrebbe eventualmente esser chiamato a testimoniare solo per confermare quanto relazionato nel documento.

Ai sensi dell’art. 2697 Cod. Civ., “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” e, di contro, “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”; quindi, per poter ottenere il risarcimento del danno in sede giudiziale, al soggetto danneggiato corre l’obbligo di fornire al Giudice la prova dei fatti che, secondo la sua prospettazione, hanno concorso a determinare l’evento e che determinano la responsabilità di colui il cui comportamento si assume esserne stata la causa.

Risulta quindi evidente l’importanza del rapporto d’intervento nel processo, poiché tutto ciò che il soccorritore avrà verbalizzato potrà esonerare l’infortunato dal procurarsi ed offrire l’ulteriore prova.

Queste premesse mettono in evidenza l’esigenza che il verbale d’intervento sia compilato con la massima precisione e, per quanto qui ci interessa, che sia curata in particolare la verbalizzazione di alcuni dati: data e ora, generalità dei soccorritori, dei testimoni, dei soggetti firmatari per il caso di infortunato minorenne, presenza dell’assicurazione, del casco, condizioni meteo.

In particolare, se appare ovvia l’importanza dell’annotazione della data e dell’ora e dei dati dei soccorritori, non bisogna scordare che ancor più rilevante è l’esatta indicazione degli eventuali testimoni, poiché il soccorritore normalmente non assiste all’evento, ma giunge successivamente. E’, quindi, importante che siano indicati i nominativi ed i recapiti di tutti i testimoni possibili. Infatti, è prassi nel processo afferire maggior rilevanza alle dichiarazioni testimoniali quanto più esse sono numerose, precise e concordanti sugli eventi.

Anche le condizioni meteo possono assumere grande rilevanza nell’accertamento della responsabilità e della colpa nei sinistri; basti pensare all’ipotesi dello scontro tra sciatori nell’intersezione tra due piste in presenza di nebbie o nevicate, che ostacolino la visibilità.

Infine, occorre porre attenzione sulle sottoscrizioni da apporre in calce al rapportino d’intervento nel caso di infortunati minorenni. Infatti, nel caso che non siano presenti i genitori del giovane sinistrato, grava sugli accompagnatori del medesimo (maestri, istruttori, allenatori) un onere di vigilanza e controllo destinato proprio ad evitare che il giovane compia azioni pericolose od avventate e, nel caso, possono derivare gravi responsabilità di carattere sia civilistico che penalistico; sarà, quindi, opportuno accertarsi delle generalità di colui al quale i genitori abbiano affidato il minore, specificando, inoltre, se si tratti di maestro di sci, amico di famiglia o congiunto. Infatti, nella prima ipotesi, trattandosi di attività retribuita e svolta da operatore professionale del settore, più gravi saranno gli oneri di vigilanza e controllo.

Infine, un cenno alle note in calce al rapporto: è assai utile che il verbalizzante annoti tutti quegli ulteriori elementi che gli possano risultare esser stati rilevanti nel fatto, poiché ogni singolo aspetto può aver concorso a determinare l’evento. Per esempio, si pensi al caso di uno scontro tra sciatori in un tratto di pista nel quale siano in funzione gli impianti di innevamento che, “sparando”, diminuiscano la visibilità ostacolando così la possibilità per lo sciatore di avvedersi della traiettoria di un altro sciatore. In tale ipotesi, l’annotazione della circostanza consentirà di meglio valutare le responsabilità degli sciatori coinvolti nel sinistro.

In definitiva, le ipotesi in cui si può incorrere in un sinistro sono tali e tante che è impossibile prevedere una casistica; per questo motivo, è importante lo scrupolo del verbalizzante che, con le sue indicazioni, può rendere più agevole e preciso il lavoro del Giudice e, nel caso che le prove così acquisite siano precise, chiare e concordanti, può persino escludere la necessità del processo che, infatti, è destinato a chiarire gli eventi e le responsabilità solo quando questi non non risultino sufficientemente chiari dai documenti disponibili.

L’apposizione delle canne fumarie sulla facciata degli stabili in condominio

di Mauro Manassero – Avvocato in Torino

L’esercizio dell’attività commerciale di produzione e somministrazione di alimenti al pubblico in unità site al piano terreno di un edificio in Condominio necessita dell’adozione di sistemi di smaltimento dei fumi e degli odori prodotti dalle cucine che si pongono in apparente conflitto con il diritto del Condominio medesimo, per quanto concerne le parti comuni, e dei suoi partecipanti, con riferimento sia ai diritti di ciascuno sulle parti comuni e sia ai diritti afferenti alle parti private. L’analisi della giurisprudenza, sia di merito che di legittimità e sia civile che amministrativa, consente di individuare le norme di riferimento per il corretto e legittimo esercizio del diritto di apporre il dotto fumario in aderenza alla facciata comune condominiale e chiarisce, inoltre, entro quali limiti detta attività può essere esercitata pur nella tutela dei diritti concorrenti.

Introduzione

Capita spesso che soggetti che hanno in animo di intraprendere l’esercizio commerciale della somministrazione di bevande ed alimenti, succedendo a precedenti esercenti o iniziando una nuova attività, non dedichino sufficiente attenzione al sistema di smaltimento dei fumi e degli odori prodotti da tali attività.

Tuttavia, siffatto aspetto costituisce elemento essenziale per l’esercizio dell’attività di ristorazione, giacché il rilascio della autorizzazione sanitaria necessaria allo scopo presuppone, tra i vari requisiti, la presenza di un sistema di smaltimento idoneo e conforme alla normativa vigente.

A far data dalla metà degli anni 90, vari Comuni hanno imposto l’adozione di sistemi di smaltimento a canna fumaria, con sostituzione dei precedenti impianti filtranti a carboni attivi, ogni qualvolta si era in presenza di segnalazioni provenienti da soggetti che lamentavano, in danno di un determinato ristorante, la presenza di odori sgradevoli provenienti dall’attività di cucina .

Da allora, è sufficiente che un condomino manifesti le proprie doglianze per la presenza di esalazioni derivanti dall’attività di produzione del ristorante sottostante, perché l’Ufficio Igiene ed Alimenti invii gli ispettori che, accertata la presenza di sistemi diversi da quello a cappa aspirante filtrata collegata con canna fumaria, redigono la propria relazione acclarante la presenza del vetusto sistema a carboni attivi; siffatta relazione precede di pochi giorni la notificazione dell’ordinanza di esecuzione, entro 90 gg., delle opere di sostituzione dell’impianto obsoleto, pena la revoca dell’autorizzazione sanitaria e, quindi, la sospensione dell’attività commerciale.

Ciò ha comportato la nascita di plurimi contrasti, tra i ristoratori destinatari dei provvedimenti sindacali e coloro che invece dall’adozione di tali sistemi di smaltimento ricevono fastidio se non addirittura danno.

Ovviamente, i contrasti sono sorti soprattutto in sede condominiale e in molti casi l’argomento è stato strumentalizzato quale “escamotage” per cercare di ottenere la cessazione delle attività di ristorazione.

L’argomento è molto ampio perché comprende l’analisi delle norme del codice civile che consentono in ambito condominale l’apposizione della canna fumaria privata in aderenza alla facciata condominiale, l’identificazione dei limiti all’esercizio di siffatto diritto, le modalità pratiche e processuali di difesa di fronte all’opposizione del condominio e dei singoli condomini, il comportamento della p.a., e la giurisprudenza amministrativa sull’argomento.

L’analisi delle norme

La norma nella quale trova fondamento la realizzazione di tali opere, è l’art. 1102 del codice civile, che consente a ciascun condomino di trarre dal bene comune condominiale, nel nostro caso la facciata, la massima utilità a vantaggio della propria singola unità immobiliare, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla stessa norma.

In primissimo luogo, giacché l’esperienza giurisprudenziale ha insegnato che sovente gli enti di gestione erroneamente ricorrono a tali principi per sostenere l’illegittimità dell’opera, occorre chiarire che l’argomento in esame concerne la norma dell’art. 1102 cod. civ., e non la separata e diversa previsione normativa di cui all’art. 1120 cod. civ., che disciplina invece la materia delle innovazioni in ambito condominiale.

Infatti, quest’ultima riguarda le modificazioni alla cosa comune eseguite a cura e spese del condominio, quale ente di gestione, e non del singolo condomino, e tali “innovazioni” sono destinate a migliorare o a rendere più comodo l’uso di un bene comune nell’interesse di tutti i compartecipanti e non di un solo condomino come nell’ipotesi oggetto della presente analisi.

È infatti di tutta evidenza la ratio delle norme in esame e la loro complementarietà:

– ove si discuta di un intervento che un condomino abbia in animo di eseguire su un bene comune ad esclusivo vantaggio ed utilità della propria unità immobiliare, non sarà necessaria alcuna autorizzazione assembleare, purché siffatto intervento non abbia a superare i limiti posti dalla norma medesima a tutela dei diritti dei concorrenti;

– qualora invece l’intervento modificativo della cosa comune sia destinato ad attribuire a tutti i condomini un miglior godimento del bene comune, o una sua superiore utilità, sarà necessaria l’adozione della delibera assembleare che disponga sia l’esecuzione dell’opera, sia l’addebito dei relativi costi a ciascun condomino in proporzione alle rispettive quote di proprietà espresse in millesimi.

Tornando alla norma che ci interessa, cioè l’art. 1102 cod. civ., dal tenore letterale della disposizione emerge che il singolo partecipante può apportare al bene comune tutte le modificazioni necessarie allo scopo che si prefigge, purché queste non impediscano agli altri di farne il pari uso concorrente e ciò nel rispetto della destinazione d’uso senza necessità di preventiva autorizzazione assembleare1.

Ovviamente, il bene comune sul quale si esplica l’attività di edificazione del condotto fumario per l’espulsione coatta dei fumi deve essere identificato con la facciata comune condominiale e, segnatamente, quella retrostante, o secondaria, o prospiciente la corte comune.

Infatti, la facciata principale, o lato strada, è insuscettibile di interventi che, alterando l’armonia architettonica e l’aspetto estetico dell’edificio, intesi come insieme di linee verticali ed orizzontali e spazi pieni e vuoti che afferiscono un determinato aspetto e decoro allo stabile, potrebbero avere un riflesso negativo sul valore intrinseco di scambio delle unità immobiliari, con ciò rivelandosi illecitamente dannosi pergli altri condomini2.

Identificata la facciata destinataria del tracciato del condotto fumario, occorre ancora precisare che non deve trattarsi di una architettura a ballatoi continui, ovviamente perché il transito della canna fumaria attraverso le solette dei balconi a ballatoio privato conduce a tutt’altra serie di problemi che esulano dagli argomenti trattati in questa sede3.

L’art. 1102 cod. civ.

La realizzazione dell’opera comporta il rispetto di due ordini di limiti che derivano dalla coesistenza, sul medesimo bene comune, di due diversi ordini di diritti:

– quelli riferibili ai condomini in ordine al bene comune sul quale è realizzata l’edificazione, che sono fissati dall’art. 1102;

– e quelli riferibili ad ogni singolo condomino in relazione alla propria unità immobiliare esclusiva, che invece sono sanciti dalle norme che regolano i rapporti di vicinato, distanze, etc.

In ordine ai diritti afferenti al bene comune occorre in primo luogo ricordare che i limiti posti dall’art. 1102, comma 1 sono:

– rispetto della destinazione naturale del bene

– rispetto dell’uso concorrente.

Il primo limite, identificato con la destinazione del bene, è dettato dalla somma delle funzioni alle quali il bene è naturalmente destinato.

La destinazione naturale della facciata condominiale è, secondo la più ampia giurisprudenza, quella di sorreggere il fabbricato, consentire l’apertura di porte e finestre, proteggere le unità abitative dagli agenti atmosferici ma, a fianco di tali utilità, sono state identificate ulteriori funzioni accessorie inerenti il suo ruolo quale parte essenziale della struttura del fabbricato che, quindi, sono quelle di consentire l’appoggio di vetrine, targhe, insegne, cavi e fili, tubazioni, camini e canne fumarie4.

Ulteriore problema concerne l’argomento relativo al concetto di “uso della cosa comune” con riferimento all’ipotesi che l’apposizione della canna fumaria possa considerarsi idoneo ad esaurire la possibilità di utilizzo della parte di facciata destinata a siffatta apposizione.

La giurisprudenza di legittimità è pervenuta alla conclusione per la quale, nella considerazione del pari uso concorrente, si debba primariamente aver cura di accertarsi che sia ragionevolmente prevedibile che gli altri condomini non faranno un “pari uso” del medesimo bene; cosicché, posto che le abitazioni private sovrastanti il locale commerciale sito al piano terreno dello stabile non avranno mai la necessità di esser dotate di condotti per lo smaltimento coatto di fumi, ne deriva che l’ipotesi che altri condomini necessitino di godere del pari uso così identificato sia del tutto remota se non addirittura impossibile.

Oltre a ciò, il concetto di uso di bene comune nell’interesse e a vantaggio della singola unità esclusiva postula il principio per il quale siffatto uso può essere espanso fino al limite dei diritti concorrenti e, coerentemente, consente di pervenire alla successiva conclusione per la quale è ammissibile che un determinato condomino goda di un uso “più intenso” di quello che i condomini concorrenti possono a loro volta godere, purché tale uso più intenso non si riveli in danno degli altri5.

Tornando, quindi, all’analisi dell’art. 1102 cod. civ., e terminata l’esegesi del primo comma, si passa ora al secondo, che stabilisce che: “Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

Ne consegue che l’utilizzo del bene comune conformemente al diritto in questione non implica l’esercizio di un possesso idoneo ai fini dell’usucapione non potendosi tradurre il mero uso in possesso uti dominus.

Infatti, l’apposizione della canna fumaria, in quanto rientrante nell’alveo delle legittime utilità del bene comune gravato, non è idonea a integrare in capo all’agente un possesso avente le caratteristiche idonee a determinare l’usucapione della parte di muro comune interessata6.

Le distanze legali

Verificato il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 1102 cod. civ., si passa all’argomento centrale relativo al regime delle distanze legali.

L’utilizzo della facciata comune condominiale richiede per la sua legittimità il rispetto di un duplice regime di distanze, che altro non è che una ulteriore manifestazione della duplice natura dei rapporti condominiali, che concernono diritti esistenti sulle parti private e diritti invece esistenti sulle parti comuni e, come tali, condivisi da tutti i condomini.

In particolare, il tracciato della canna fumaria deve rispettare sia il regime delle distanze dai beni comuni condominiali, sia quello riferito invece alle distanze dalle singole proprietà esclusive.

Apparentemente non dovrebbe esserci differenza, poiché le norme sulle distanze non distinguono a seconda che il bene, rispetto al quale la distanza debba essere rispettata, appartenga ad un solo proprietario o a più proprietari e quindi sia un bene comune pro quota e pro indiviso.

In realtà, il differente trattamento destinato alle due diverse condizioni dei beni (comuni od esclusivi) rispetto ai quali le distanze debbono esser rispettate è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale che, nei confronti dei primi, ha attenuato l’efficacia delle norme sulle distanze a fronte della maggior rilevanza del diritto all’utilizzo del bene comune.

I beni di proprietà privata esclusiva rispetto ai quali è necessario rispettare le ordinarie distanze sono, ovviamente, le finestre ed i balconi dei singoli appartamenti che sovrastano l’unità a servizio della quale il condotto fumario dovrà essere installato; mentre quelli comuni saranno (soprattutto) le finestre e le luci a servizio delle scale comuni condominiali.

L’argomento è stato trattato nella fondamentale sentenza della Corte di cassazione n. 724/19957 che ha fissato i principi cardine nella importantissima materia.

Siffatta pronuncia contiene, nella parte motiva, due dogmi di fondamentale rilevanza nella materia qui trattata che riguardano:

– la distanza che dovrà esser rispettata nei confronti delle finestre e dei balconi privati posti sulla medesima facciata sulla quale sarà apposta la canna fumaria;

– la distanza che dovrà essere rispettata nei confronti delle finestre comuni condominiali.

Pertanto, atteso che il fondo sul quale è esercitata la veduta è la facciata, e con l’affaccio dalle finestre private si potrà dare corso solamente ad una visione obliqua, ma non ad una visione diretta, allora non troverà applicazione la norma di cui all’art. 907 cod. civ.8 ma in luogo della misura prevista nella norma testé richiamata, dovrà osservarsi verso le parti in esclusiva proprietà la distanza minima prevista per l’apertura di vedute laterali ed oblique di cui all’art. 906 cod. civ.9 e, quindi, cm.75.

Legittimamente ci si chiederà, quindi, da quale punto la distanza dovrà essere misurata; per quanto concerne le finestre dovrà aversi cura di procedere alla misurazione dalla spalletta di contorno della finestra e fino al bordo esterno del condotto fumario; mentre per i balconi si dovrà procedere alle misurazioni a partire dall’ultimo sporto del balcone che deve essere identificato con il lato esterno della soletta, o del “marmetto” che delimita la pavimentazione e che normalmente si inserisce lateralmente nella facciata.

Per quanto concerne il regime delle distanze tra il condotto fumario e le finestre comuni condominiali, la S.C. ha, invece, fissato una importante deroga dovuta alla prevalenza del diritto del singolo all’uso più intenso del bene comune sulle norme relative alle distanze10.

Occorrerà, tuttavia, avere cura di non ostacolare o limitare il normale utilizzo delle finestre in questione e, quindi, il condotto dovrà essere posizionato in guisa da non limitare l’accesso di luce ed aria (e, quindi, la canna fumaria non potrà essere installata davanti alla luce della finestra, bensì a fianco della medesima); e parimenti si dovrà consentire la completa apertura dei battenti ove essi avessero l’apertura a libro verso l’esterno.

Aspetti pratici

Sotto l’aspetto pratico, è importante rilevare che è sufficiente che un condomino lamenti odori sgradevoli provenienti da attività di ristorazione posta al piano terreno dell’edificio in Condominio affinché l’ente territoriale, a mezzo dell’Ufficio Igiene ed Alimenti, invii i propri ispettori che, accertata l’esistenza di un sistema di smaltimento a carboni attivi, provvedano a segnalare lo stato di fatto e, conseguentemente, il Comune emetta l’ordinanza che concede 90 gg. per la sostituzione del sistema a carboni attivi con quello a canna aspirante filtrata collegata con il condotto fumario.

Il soggetto legittimato ad esercitare il diritto che sopra abbiamo identificato, è solamente il proprietario dell’unità immobiliare entro la quale sarà, o è, esercitata l’attività di somministrazione.

Il conduttore non appare legittimato attivamente, perché in linea di massima è difficile ricondurre la fattispecie in esame nell’alveo delle “molestie” previste dalle norme di cui agli artt. 1585 e 1586 cod. civ.; quindi, nel caso in cui il ristoratore sia conduttore sarà meglio coinvolgere il titolare del diritto di proprietà.

Sarà utile, pertanto, predisporre una scrittura privata di duplice e reciproco contenuto da sottoporre alla sottoscrizione dei due soggetti:

– da un lato dovrà prevedersi l’impegno del locatore a sottoscrivere ogni documento e a svolgere ogni attività richiesta per l’installazione della canna fumaria, e quindi anche l’impugnare in proprio nome l’eventuale delibera condominiale di diniego;

– dall’altro, l’impegno del conduttore a tenere indenne il locatore da ogni conseguenza, soprattutto economica, che dalle attività e dall’impugnazione dovesse derivare.

Premesso l’accordo privato tra il conduttore e la proprietà, il primo atto formale da porre in essere sarà quindi la presentazione della DIA o SCIA presso l’Ufficio Tecnico del Comune territorialmente competente.

A tal proposito, assume centrale rilevanza la circostanza per la quale non v’è uniformità tra le allegazioni che i diversi comuni chiedono nei propri moduli SCIA/DIA.

Ad esempio:

Il Comune di Torino chiede che siano versati in atti l’assenso condominiale/consenso degli altri condomini reso ai sensi di legge (?) ma, come abbiamo già visto, l’art. 1102 cod. civ. non chiede l’assenso degli altri condomini o l’autorizzazione assembleare e, neppure v’è Legge che ne presupponga l’esistenza per l’esercizio del diritto in questione.

Il Comune di Milano è senz’altro l’ente territoriale più attento e, nel proprio modulo SCIA differenzia le situazioni a seconda che si tratti di intervento ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. o 1120 cod. civ., pretendendo, in questa sola ipotesi che sia allegata agli atti la delibera autorizzativa prevista dalla norma ivi richiamata.

Il Comune di Cuneo chiede che il progetto sia stato approvato dall’assemblea, ma non se ne comprende la ragione.

I Comuni di Asti e di Alessandria pare non chiedano alcuna allegazione specifica.

Risulta, comunque, che nessun ente territoriale chieda quella che potrebbe eventualmente essere la formula più opportuna ed appropriata, cioè quella del “nulla osta” dell’amministratore dello stabile: infatti, motivi altri e diversi potrebbero risultare ostativi, quantomeno per via temporale, all’esecuzione delle opere (ad esempio, la coesistenza di diversi cantieri in situ – quale il rifacimento della facciata o del manto di copertura – potrebbe risultare conflittuale con l’esecuzione delle opere in questione); quindi, appare consigliabile munirsi del parere dell’amministratore dell’edificio che, per soli motivi di fatto, acclari l’assenza di ostacoli all’esecuzione.

Ad ogni buon conto, nella giurisprudenza amministrativa vi sono contrasti proprio in ordine alla sussistenza del potere in capo all’amministrazione di chiedere il consenso degli altri condomini, con ciò inserendosi, d’autorità ed in difetto di una specifica previsione normativa, nei rapporti privatistici.

Infatti, alcuni Giudici amministrativi hanno ricompreso la necessità dell’assenso nella disposizione del previgente art. 4 della legge n. 10/1977, ed attuale art. 11 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia), mentre altri hanno reputato che ciò costituisse indebita ed illegittima interferenza nei rapporti di diritto privato, anche atteso che le autorizzazioni amministrative nella materia edile sono sempre rese “fatti salvi i diritti dei terzi”11.

Se però vorremo evitare qualsivoglia ostacolo, che potrebbe condurci infine a dover ricorrere al TAR, chiederemo il prefato nulla osta all’amministratore del condominio che, essendo chiamato a pronunciarsi su di un bene non al medesimo appartenente, provvederà a chiedere all’assemblea del condominio d’essere autorizzato a concedere siffatto nulla-osta.

A questo punto, sarà opportuno che il condomino chieda al medesimo amministratore, facendosi carico delle relative spese, che sia indetta un’assemblea avente ad oggetto la sua richiesta di nulla osta, allegando a tale richiesta, da inviarsi per raccomandata a.r., il progetto d’edificazione, la dichiarazione della ditta della quale s’è detto più sopra, ed i rilievi fotografici; ancor meglio se il progetto, come d’uso oggi, sarà reso mediante elaborazioni informatiche che disegnano la canna fumaria sulla facciata esattamente come essa sarà edificata.

Potrà accadere che l’assemblea del condominio neghi l’autorizzazione, senza neppure motivare il proprio diniego, ma assai spesso fondandolo sull’art. 1120 cod. civ. che, come già visto in precedenza, non ha alcuna attinenza con l’opera.

Non resterà altro da fare, quindi, che procedere con l’impugnazione della relativa delibera , trattandosi, comunque e per precisione, di un caso di nullità perché nega in radice l’esistenza del diritto del condomino che invece è sancito dall’art. 1102 cod. civ.

Si segnala, infine, che la sospensione cautelare dell’efficacia della delibera non è implicita nell’impugnazione, ai sensi del comma 2 dell’art. 1137 cod. civ. ma potrà essere ottenuta proprio in considerazione dei ristretti tempi concessi dal Comune per eseguire i lavori con ricorso d’urgenza.

Infatti, se si sarà in presenza di un’ordinanza che obbliga all’adozione della canna fumaria entro il termine di gg. 90, pena la revoca dell’autorizzazione sanitaria all’esercizio dell’attività commerciale, sussisteranno i presupposti del periculum in mora e del fumus boni juris, con possibilità quindi di procedere alla immediata sospensione della delibera tramite ricorso d’urgenza ex art. 669-bis ss. cod. proc. civ.

L’ordinanza cautelare sospensiva dell’efficacia della delibera ostativa, potrà essere prodotta all’Ufficio Tecnico comunale in luogo dell’assenso dei condomini, o del nulla-osta, e di qualsivoglia parere del condominio che l’Amministrazione pubblica avrà chiesto, dimostrando altresì all’Ufficio Tecnico dell’ente territoriale che l’edificazione è realizzata nell’ambito delle facoltà consentite al singolo condomino dall’art. 1102 cod. civ.

Nella successiva fase del merito, prevista dall’art. 669-octies cod. proc. civ., si potrà così ottenere una sentenza definitiva che acclarerà la nullità della delibera condominiale negatoria dell’esistenza del diritto12.

Occorre peraltro far notare come tali pronunce si riferiscano a periodo anteriore alla recente riforma del condominio con la quale è stata definitivamente generalizzata l’impugnazione delle delibere assembleari condominiali tramite atto di citazione e non già tramite ricorso, seppure d’urgenza.

La richiesta di sospensiva potrà comunque ben essere avanzata immediatamente dopo la notifica dell’atto di citazione e l’iscrizione a ruolo della causa, tramite idoneo ricorso al Giudice nel frattempo nominato, che fisserà udienza anticipata, rispetto alla prima udienza, ai soli fini della discussione della sospensiva.

1 Cfr. Trib. Potenza 1° febbraio 2008.

2 Sull’argomento si segnalano Cass. 16 maggio 2000, n. 6341; Cass. 15 aprile 2002, n. 5417; Cass. 22 gennaio 2004, n. 1025; Trib. Roma, sez. V, 23 marzo 2011.

3 Si segnala tuttavia la pronuncia Cass. 22 gennaio 2004, n. 1015, che affronta anche il correlato problema relativo all’inserimento del condotto fumario nel preesistente ed obsoleto cavedio utilizzato per lo smaltimento dei rifiuti domestici.

4 A tal proposito, si segnala Cass. civ. n. 6341/00, in Rass. loc., 2001, 132 con nota di De Tilla.

5 V. in tal senso: Cass., sez. II, 12 febbraio 1998, n. 1499.

6 Cass. 12 febbraio 1998, n. 1499. Cass., sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478.

7 Cass., sez. II, 23 gennaio 1995, n. 724. Dal necessario collegamento del comma 2 con il comma 1 dell’art. 907 cod. civ., a norma del quale è obbligatorio mantenere la distanza di tre metri anche dalla finestra da cui si esercita veduta obliqua quando da questa finestra si eserciti anche veduta diretta sullo stesso fondo, deriva che quando la veduta sia soltanto obliqua, il proprietario del fondo sul quale la veduta medesima si esercita non deve rispettare la distanza di tre metri ma solo quella di settantacinque centimetri dal più vicino lato della finestra medesima, ai sensi dell’art. 906 cod. civ.

Le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale nel caso in cui esse siano compatibili con l’applicazione delle norme particolari relative all’uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.), cioè nel caso in cui l’applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile una complementare; nel caso di contrasto, prevalgono le norme relative all’uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (nella specie, si trattava della installazione, in appoggio al muro condominiale, ed in prossimità della finestra di un condomino, della canna fumaria della centrale termica condominiale).

8 Art. 907. Distanza delle costruzioni dalle vedute. Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell’articolo 905.

Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.

Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia.

9 Art. 906. Distanza per l’apertura di vedute laterali od oblique. Non si possono aprire vedute laterali od oblique sul fondo del vicino se non si osserva la distanza di settantacinque centimetri, la quale deve misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto.

10 V. in tal senso la recentissima sentenza 3 marzo 2014, n. 4936 della S.C., che ha stabilito la legittimità dell’apposizione di una canna fumaria in aderenza al muro perimetrale ed a ridosso del terrazzo a livello di proprietà di un condomino.

11 Si segnala in proposito l’importantissima pronuncia del Cons. Stato 23 giugno 1997 n. 699; Oltre a Cons. Stato, sez. V, 3 gennaio 2006, n. 11, Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2004, n. 6297, Cons. Stato, sez. V, 9 novembre 1998, n. 1583.

12 V. in tal senso Trib. Torino: proc. urgenza 466/C/2000 – sentenza 3999/01; proc. urgenza 72/1999 – sentenza 8203/99; App. Torino sentenza n. 941/2000.