L’incendio negli edifici, profili civilistici.

Relazione dell’Avv. Mauro Manassero nell’evento formativo della Camera Civile del Piemonte e della Valle d’Aosta del 13.12.2021 dal titolo:

L’incendio: profili penalistici, civilistici ed assicurativi.”

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INCENDIO: profili civilistici.

Nel c.c. l’incendio è nominato solamente in tre articoli (1588 perdita e deterioramento della cosa locata – 1611 incendio di casa abitata da più inquilini – 1589 incendio di cosa assicurata) di quest’ultima norma non mi occuperò rientrando nell’argomento della successiva relazione dell’avv. M.C.

esclusa la norma contenuta nell’art. 1589, sotto l’aspetto civilistico l’incendio è, quindi, espressamente disciplinato dal codice solamente quando coinvolga un immobile condotto in locazione o quando si tratti di “cosa” locata .. si tratta quindi della disciplina che discende dalla sussistenza del rapporto contrattuale della locazione

Inoltre, l’argomento rientra, ovviamente, nell’alveo delle previsioni codicistiche di cui all’art. 2043 e seguenti per i risvolti risarcitori del danno procurato dall’incendio a beni appartenenti a soggetti terzi

Non potendo, in questa sede trattare tutte le ipotesi, limiterò la mia trattazione all’incendio in ambito condominiale ed all’incendio dell’immobile locato, lasciando alla libera iniziativa di ciascuno di Voi per gli approfondimenti relativi alle altre ipotesi (incendio provocato dall’incapace – 2047 – dal minore 2048 – dal lavoratore dipendente 2049 – per le attività pericolose 2050 – dalla circolazione di veicoli 2054) mentre per quanto concerne la previsione di cui all’art. 2051, responsabilità per le cose in custodia, rientrerà nella relazione essendo riferibile alla responsabilità dell’amministratore del condominio

Iniziando, quindi, dall’incendio nel condominio:

occorre distinguere se esso si sia propagato da una delle parti comuni dell’edificio e, quindi, ad esempio dall’impianto elettrico o dall’impianto del riscaldamento comune, o se esso sia scaturito da un abitazione privata

Nel primo caso, ove sia accertato che l’evento è scaturito a causa di mancate manutenzioni, mancati adeguamenti degli impianti alle norme di legge e, quindi, al di fuori ed oltre l’ipotesi della sussistenza del “caso fortuito”, che rappresenta l’unica causa di esclusione della responsabilità per le cose in custodia, l’amministratore del Condominio sarà ritenuto responsabile dei danni derivati dall’evento.

Egli potrà andar esente da responsabilità solamente offrendo la prova della sussistenza del caso fortuito, che consiste nella dimostrazione che il fattore determinante l’insorgere dell’incendio, nel caso del Condominio, ha avuto origine in parti, strutture o apparati sottratti alla sua disponibilità ed al suo controllo e, quindi, estranei alla sfera dei suoi poteri e doveri di vigilanza.

Quindi, l’amministratore del Condominio è responsabile, civilmente e penalmente, delle conseguenze derivate dall’incendio delle parti comuni sulla base della previsione dell’art. 2051 per la responsabilità delle cose in custodia in quanto egli, ai sensi dell’art. 1130 n. 4 cod civ. (obbligo di compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio) ed in base all’art. 40 c.p. secondo comma (Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo) poiché egli è responsabile per l’attività di controllo che su di lui grava in virtù del rapporto di mandato d’amministrazione che rende legittima la pretesa dai condomini avente ad oggetto la custodia dei beni comuni; in tal caso, mi correggano i penalisti, si versa nell’ipotesi del reato omissivo improprio, o commissivo mediante omissione.

Tale condotta acquisisce, dunque, rilevanza causale poiché deriva dall’assunzione volontaria dell’obbligo di custodia al quale l’amministratore si sottopone in virtù della sua attività professionale e del mandato ricevuto per via contrattuale.

Corollario di quanto detto fino ad ora, è il principio per il quale il Condominio, ed il suo amministratore, non possono esser tenuti responsabili quando l’incendio si sia propagato da una parte privata e non da un parte comune, così come deciso ad esempio dal

Tribunale – Roma, 05/11/2001,

Il condominio non è responsabile dei danni causati a terzi da un incendio che, pur avendo coinvolto il fabbricato condominiale, si sia sviluppato all’interno di una porzione di proprietà esclusiva.

In tal caso, la responsabilità risarcitoria graverà sul proprietario dell’unità dalla quale si è propagato l’incendio con riguardo ai danni derivati alle unità private limitrofe coinvolte nell’evento ed alle parti comuni dell’edificio.

A tal proposito, ritengo opportuno rassegnarvi un breve corredo giurisprudenziale riguardo ad alcune pronunce che ho reperito e che mi paiono interessanti.

Ovviamente, molte saranno sentenze penali ma vorrete perdonarmi perché ciò è determinato non dalla mia volontà di “sconfinare” dalle mie competenze, ma perché l’argomento è stato trattato in massima parte dai giudici penali nelle sentenze dei quali si reperiscono spunti d’interesse civilistico.

In primo luogo la Sentenza Cass. Civ. n. 39959/09 della quale sono state pubblicate più massime, tre delle quali mi paiono interessanti perché confermano quanto fino ad ora vi ho detto

Cass. pen., Sez. IV, 23/09/2009, n. 39959

La responsabilità penale dell’amministratore di condominio (nella specie in considerazione per l’incendio causato dal malfunzionamento di una canna fumaria) ha natura omissiva, traendo origine dalla violazione dell’obbligo di compiere tutti gli atti idonei a tutelare i diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, ne discende che l’accertamento in concreto della colpevolezza di tale soggetto postula sia l’individuazione precisa del comportamento in concreto esigibile in relazione alla sua posizione di garanzia, che la sussistenza del nesso causale tra l’omissione e l’evento lesivo.

L’amministratore di un condominio è titolare di garanzia quanto alla conservazione delle parti comuni dell’edificio condominiale, giusta l′inequivoco disposto dell’art. 1130 n. 4, del codice civile, onde, laddove non si attivi, può ravvisarsi la sua responsabilità ex art. 40, comma 2, del c.p., che stabilisce che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” con la precisazione che l’obbligo di attivarsi a carico dell′amministratore non deriva da alcuna specifica autorizzazione dei condomini, giacché l’art. 1130 n. 4, del codice civile gli pone come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, prescindendo, anzi, dal fatto che si tratti di atti cautelativi e urgenti e prescindendo, altresì, dal fatto che la situazione di pericolo derivi dai beni di terzi e non sia di pertinenza del condominio. (Nella specie, trattatasi di un percolo di incendio riconducibile al difetto di installazione di una canna fumaria non appartenente al condominio, bensì a terzi).

Sussiste una responsabilità penale in capo all’amministratore di condominio nel caso di danni allo stabile da lui gestito solo se risulta giustificata e processualmente certa la conclusione che la sua condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica (in applicazione del suesposto principio, la Corte ha annullato un verdetto di condanna che riteneva responsabile anche un amministratore di condominio, a titolo di concorso colposo, dell’incendio scoppiato nell’edificio e causato dalla difettosa installazione della canna fumaria della pizzeria attigua al palazzo).

Tornando all’obbligo di custodia delle parti comuni, occorre specificare che esso non è limitato alle condizioni materiali ed agli eventi fattuali dai quali potrebbe propagarsi l’incendio, ma si estende anche alle attività che potremmo definire “d’ufficio” .. esempio di questo principio si reperisce nella sentenza

Cass. pen., Sez. IV, 30/06/2017, n. 43500

L’amministratore che stipuli un contratto di affidamento in appalto di lavori da eseguirsi nell’interesse del Condominio è tenuto, quale committente, all’osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale dell’impresa appaltatrice essendo titolare di un obbligo di garanzia, quanto alla conservazione e manutenzione delle parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’art. 1130 cod. civ. Non rileva pertanto, nel caso di specie, che l’incendio si sia sviluppato su una parte comune dell’edificio condominiale ovvero su un bene appartenente al singolo condomino, accessibile dalla parte comune. Egli, ben consapevole che i lavori da eseguire comportavano l’utilizzo di materiale infiammabile, avrebbe dovuto attivarsi a tutela delle parti comuni esposte a pericolo, assicurandosi della capacità della persona incaricata: la sua colpevole inerzia ebbe perciò un ruolo causalmente incidente sulla produzione dell’evento.

Ovviamente la responsabilità dell’amministratore del Condominio sarà definitivamente esclusa quando il comportamento dei singoli condomini abbia influito, con funzione causale ed esclusiva, sull’accadimento dell’evento pernicioso e, a tal proposito, mi pare degna di rilievo la pronuncia del

Tribunale – Teramo, 26/01/2017, n. 48

La condotta colposa dei danneggiati (sostanziatasi nel mancato rispetto, pur essendovi tenuti in relazione alle porzioni di loro esclusiva pertinenza, della normativa sulla prevenzione degli incendi e, dunque, nella mancata predisposizione ed adozione di tutti i dispositivi all’uopo prescritti e che, ove esistenti, avrebbero con ogni probabilità, avuto riguardo in particolare alla porta tagliafuoco -notoriamente deputata, tra l’altro, a ridurre la diffusione di fiamme e fumo tra compartimenti di un edificio – impedito l’infiltrarsi delle propagazioni di fumo rilasciate dall’incendio) appare idonea ad elidere qualsiasi preteso profilo di responsabilità custodiale dell’amministratore di condominio in proprio, ponendosi quale fattore causale idoneo di per sé solo a rilevare quale causa dell’eventus damni dedotto.

Con riguardo, infine, al riparto dell’onere probatorio, occorre rilevare che

Tribunale sez. XII – Roma, 14/01/2016, n. 694

In tema di responsabilità da cosa in custodia (art. 2051 c.c.), seppure la ripartizione dell’onere della prova sia particolarmente agevole per il danneggiato, quest’ultimo deve comunque dimostrare il fatto storico (comprensivo della qualità di custode del bene foriero di danno in capo al convenuto) ed il nesso causale tra il pregiudizio subito e l’evento dedotto; resta, invece, a carico del custode la dimostrazione della sussistenza del caso fortuito volto ad interrompere il nesso causale tra il danno e l’evento, così da renderlo esente da responsabilità. (Fattispecie relativa ad un incendio scoppiato in un condominio, in cui è stata esclusa la responsabilità ex art. 2051 c.c. a fronte della mancata dimostrazione che il fatto avesse avuto origine nelle parti del bene oggetto dell’onere di custodia e manutenzione da parte del condominio).

E con riferimento al momento processuale della deduzione della prova relativa al fatto del terzo che interrompa il nesso causale, Vi segnalo la sentenza

Cass. civ., Sez. III, 23/06/2016, n. 13005

In materia di responsabilità da cose in custodia, la sussistenza del caso fortuito (nella specie, incendio di cassonetto dolosamente provocato dal terzo), idoneo ad interrompere il nesso causale, forma oggetto di un onere probatorio che grava sul custode, soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni istruttorie, ma non anche di un’eccezione in senso stretto, sicché la relativa deduzione non incorre nella preclusione fissata, per il primo grado, dall’art. 167, comma 2, c.p.c. (comparsa di costituzione risposta) (Rigetta, App. Genova, 13/03/2012)

Per definitivamente concludere con riguardo alla responsabilità dell’amministratore e dell’obbligo di custodia sul medesimo gravante, vi segnalo una sentenza di legittimità che parrebbe, tuttavia, affermare il contrario di quanto fino ad ora vi ho detto …. ma non è così !

si tratta di

Cassazione penale sez. III – 29/11/2011, n. 886

Nell’ipotesi in cui la Corte di cassazione riscontri, unitamente alla causa estintiva della prescrizione del reato, un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata, deve annullarla senza rinvio ai fini penali e, ove la sentenza contenga la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, annullarne anche le statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello (fattispecie relativa all’impugnazione della sentenza di condanna emessa nei confronti di un amministratore di condominio per non aver impedito il propagarsi di un incendio, nonostante gli fosse stata consegnata un perizia tecnica in cui si dava atto che i lavori per la realizzazione di una canna fumaria, in una pizzeria adiacente all’immobile condominiale erano stati eseguiti in modo difforme dal progetto iniziale, risultando tale canna fumaria quasi completamente sprovvista di qualsiasi limitazione del calore prodotto, e che vi era conseguente possibilità di incendio).

Infatti, avendo avuto l’amministratore la perizia che accertava l’insufficienza del sistema di coibentazione della canna fumaria, è sorto in lui l’obbligo di custodia e di protezione delle parti comuni che avrebbero potuto esser danneggiate in conseguenza dell’incendio. Parrebbe trattarsi di un’interpretazione particolarmente estensiva dell’obbligo di custodia, ma in realtà così non è anche in considerazione della previsione del secondo comma dell’art. 40 c.p. già prima visto, per il quale (Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo).

Nel caso poi, della sussistenza di più concause concorrenti alla propagazione dell’incendio, ognuna di esse concorrerà alla determinazione dei soggetti tenuti responsabili al risarcimento, così come affermato in

Cass. civ., Sez. III, 26/10/2017, n. 25422

In tema di responsabilità civile per danni provocati da incendio, nella produzione dell’evento dannoso assumono concorrente rilevanza tutte le cause che abbiano determinato la diffusività e la propagazione del fuoco, e non soltanto i fattori che ne abbiano cagionato l’innesco. (Nella specie, la S.C., confermando la decisione di merito, ha ritenuto fattori concorrenti nella causazione di un incendio l’erronea installazione di un contatore di elettricità, tale da provocare un cortocircuito, e l’accumulo, nelle vicinanze dello stesso, di materiale facilmente infiammabile). (Rigetta, CORTE D’APPELLO CAMPOBASSO, 08/04/2014)

Se l’incendio in ambito condominiale si propaga, invece, da un appartamento privato a quelli limitrofi ed alle parti comuni del Condominio, il regime della responsabilità sarà l’ordinario previsto dall’art. 2043 c.c., qualora derivi dagli impianti privati dell’alloggio o da altra causa ad esso interna (corto circuito dell’impianto elettrico a servizio dell’abitazione privata, una candela lasciata accesa, o la sigaretta sul tappeto …) e dalle successive norme che interverranno se l’evento sarà stato cagionato da un minore, da un dipendente, da un incapace,

sempre che non sia ravvisabile la concorrente responsabilità dell’amministratore con riguardo al suo dovere di accertarsi che dalle opere eseguite nell’ambiente esclusivo non possa derivare danno alle parti comuni del Condominio, responsabilità già prima vista.

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Nella locazione

(1588 perdita e deterioramento della cosa locata

1611 incendio di casa abitata da più inquilini)

Propagazione da impianti dell’unità locata:

Ai sensi dell’art. 1588 del codice civile, il conduttore (inquilino) è responsabile nei riguardi del locatore (proprietario) dei danni causati dall’incendio dell’immobile locato, anche se esso è stato causato da soggetti terzi che egli abbia ammesso all’uso e/o al godimento della casa anche temporaneamente.

La norma non pone, dunque, particolari difficoltà interpretative.

Ritengo, allora, opportuno rassegnarvi, anche in questo caso, un breve corredo giurisprudenziale dal quale sarà possibile trarre spunti di riflessione.

In primo luogo, occorre chiarire che la responsabilità del conduttore si fonda su una presunzione semplice, art. 2729 cod civ., che potrà essere superata, ai sensi dell’art. 2697, mediante la prova contraria in applicazione del regime dell’onere della prova.

A tal proposito, una recentissima sentenza della Cassazione, la … ha stabilito che

Cassazione civile sez. VI – 10/03/2021, n. 6550

In ipotesi di incendio della cosa locata, il conduttore risponde della perdita o deterioramento del bene, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, ponendo l’articolo 1588 del codice civile a suo carico una presunzione di colpa, superabile solo con la dimostrazione di avere adempiuto diligentemente i propri obblighi di custodia e con la prova positiva che il fatto da cui sia derivato il danno o il perimento della cosa è addebitabile a una causa esterna al conduttore a lui non imputabile, da individuarsi in concreto, ovvero al fatto di un terzo, del quale è invece irrilevante accertare l’identità, esulando l’identificazione di tale soggetto dall’attività oggetto della prova liberatoria.

(principio già contenuto in Cassazione civile sez. III – 10/08/2016, n. 16877; Cassazione civile sez. III – 15/12/2015, n. 25221; Cassazione civile sez. III – 27/07/2015, n. 15721;

né rileva se il terzo abbia agito con colpa o con dolo, Cass. Civ. sez. VI – 28/09/2015, n. 19126)

Il principio della presunzione semplice circa la responsabilità del conduttore conduce all’ulteriore corollario per il quale, nell’ipotesi in cui la causa dell’incendio rimanga sconosciuta, egli sarà tenuto patrimonialmente responsabile per i danni arrecati in attuazione della presunzione or ora vista.

Il principio è stato recentemente confermato nella pronuncia

Cassazione civile sez. III – 26/09/2018, n. 22823

L’art. 1588 c.c., in base al quale il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, pone una presunzione di colpa a carico del conduttore, superabile soltanto con la dimostrazione che la causa dell’evento, identificata in modo positivo e concreto, non sia a lui imputabile, onde, in difetto di tale prova, la causa sconosciuta o anche dubbia della perdita o del deterioramento della cosa locata rimane a suo carico. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un caso di allagamento di un immobile, aveva ritenuto integrata la prova liberatoria da parte del conduttore, a fronte della mera allegazione della verosimile rottura di un flessibile di un sanitario del bagno, la quale era però rimasta indimostrata all’esito della disposta consulenza tecnica d’ufficio).

Ultimo corollario del principio in esame è quello per il quale il proprietario, che abbia subito i danni all’abitazione locata derivati dall’incendio procurato dal comportamento di un soggetto terzo che il conduttore abbia ammesso all’uso e/o al godimento anche solo temporaneo (ospite), avrà azione solo ed esclusivamente nei confronti del suo conduttore e non nei confronti dell’ospite, verso il quale sarà il conduttore che dovrà rivalersi ed invocarne la responsabilità con la richiesta di autorizzazione alla chiamata del terzo in causa.

Il principio è confermato in

Cassazione civile sez. III – 14/10/2019, n. 25779

E’ responsabile il conduttore per l’incendio della cosa locata, anche se causato da persone che egli ha ammesso temporaneamente all’uso o al godimento del bene.

È dunque da escludersi che l’occupante dell’immobile cui il conduttore abbia concesso l’uso momentaneo o anche continuativo della cosa locata possa rispondere nei confronti del locatore, se la cosa subisce un incendio, ai sensi dell’art. 2051 c.c., posto che tale norma attiene esclusivamente ai danni causati dalla cosa ai terzi, e non già a quelli che il conduttore causa alla cosa stessa. Ciò detto, e posto che alla fattispecie è riferibile, per contro, l’art. 1588 , si applica chiaramente il comma 2 di tale norma, che rende il conduttore responsabile (nei riguardi del locatore) dell’incendio della cosa locata, anche se causato da persone che egli abbia ammesso, anche temporaneamente, all’uso o al godimento della cosa.

Con riguardo alla previsione di cui all’art. 1611 (Incendio di casa abitata da più inquilini, ho reperito solamente due sentenze, una CdA Bologna del 1980, ed una Trib Parma del 1957 e do lettura delle due massime:

App. Bologna, 29/04/1980

In tema di ripartizione del risarcimento dei danni causati da incendio tra più locatari, pur se ad un primo esame il testo dell’art. 1611 c. c. sembrerebbe doversi interpretare nel senso che gli inquilini rispondono del danno in rapporto non a quello verificatosi nella parte rispettivamente goduta, bensì al valore della totalità della parte medesima (anche se solo parzialmente danneggiata), ove si tenga presente che la norma citata si ricollega al disposto dell’art. 1588 c. c. in tema di responsabilità per perdita o deterioramento della cosa locata (al punto che è stata ritenuta una superflua enunciazione di un principio già discendente da quest’ultima disposizione), è però logica la contraria interpretazione, secondo cui ciascun conduttore risponde in proporzione del danno che, ai sensi del cit. art. 1588 c. c., si presume abbia arrecato alla porzione locata, e non invece in base al valore della porzione stessa (comprensivo anche della parte rimasta indenne, che sul danno non incide); tale ultimo criterio distintivo avrebbe ragione di essere, considerato naturalmente nel rapporto interno tra condebitori, solo ove la responsabilità fosse solidale.

Trib. Parma, 10/12/1957

La responsabilità concorrente degli inquilini verso il locatore, ai sensi dell’art. 1611 c.c., può essere esclusa se si prova che l’incendio è cominciato dall’abitazione di uno degli inquilini; del pari ciascuno degli inquilini può liberarsi da detta responsabilità dimostrando che l’incendio non ha potuto cominciare nella sua abitazione; irrilevante è, invece, la prova che uno degli inquilini era assente.

Conto corrente condominiale: la richiesta diretta del condomino all’istituto bancario per la copia della rendicontazione periodica

di Mauro Manassero – Avvocato in Torino

In esito alla novella L. 220/2012, l’Arbitro Bancario Finanziario ha reso plurime pronunce sul diritto del singolo condomino ad ottenere la copia della rendicontazione periodica del conto corrente condominiale mediante istanza diretta all’Istituto. Per effetto della nuova formulazione dell’art. 1129 c.c. e della sua entrata in vigore, gli arbitri finanziari hanno mutato il precedente indirizzo, che ammetteva la richiesta diretta, optando per la diversa soluzione dell’istanza mediata dall’amministratore in via preventiva, o addirittura in via esclusiva. Tale scelta, tuttavia, appare non conforme al diritto ed alla ratio della novella.

LA NOVELLA

L’art. 9, comma 1, della L. 220/2012, ha profondamente innovato il previgente art. 1129 c.c. ed il legislatore ha inserito, tra le varie novità, il settimo comma, che recepisce il già consolidato indirizzo di legittimità per il quale la gestione condominiale deve essere improntata al più ampio criterio di trasparenza: “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell’amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica”.

La parte che qui ci interessa è quella inserita nell’ultimo periodo della prefata norma e che prevede il diritto del singolo condomino ad ottenere copia della rendicontazione periodica relativa al conto corrente intestato all’ente di gestione.

Secondo il tenore letterale, ciascun partecipante può rivolgersi all’amministratore per aver copia del documento in questione e la ratio deve essere riconosciuta nel superiore interesse alla trasparenza nella gestione condominiale e nel correlato diritto del singolo condomino di verificare che l’amministratore, nella gestione degli incassi e dei pagamenti eseguiti per conto dell’ente di gestione, rispetti il rigoroso obbligo di transito di ogni somma, sia per posta attiva che posta passiva, sul conto comune. L’esercizio del controllo si estende financo alla verifica della tempestività dei versamenti dei singoli condomini concorrenti, alla eventuale sussistenza di morosità, ed a tutti quegli ulteriori aspetti che possono essere ricavati dall’esame dell’estratto di conto corrente.

La prima parte della norma imperativa, invece, fissa il correlato principio per il quale diviene tassativamente esclusa la facoltà di ogni forma di pagamento che non risulti dalla rendicontazione bancaria e il corrispondente imperativo di versamento sul conto corrente comune di ogni somma incassata, anche per l’ipotesi che i ratei siano pagati dai singoli condomini per somme contanti che, quindi, dovrebbero essere materialmente versate dall’amministratore sul conto corrente.

La complementarietà delle due disposizioni in analisi è destinata, nella loro coordinazione, ad attuare il principio di trasparenza della gestione nella forma più diretta e completa mediante la codificazione del diritto/potere di controllo degli amministrati circa ogni aspetto della gestione finanziaria, ed il Legislatore ne ha fissato il solido principio sia con riferimento ai rapporti tra l’ente ed i terzi fornitori, sia con riferimento ai rapporti tra l’ente ed ogni singolo condomino.

Nonostante l’apparente semplicità e chiarezza del principio contenuto nell’articolo in esame, la sua applicazione ha, tuttavia, determinato la necessità di plurime pronunce ADR con riferimento a quanto dalla norma non espressamente disciplinato, vale dire l’ulteriore ipotesi che il singolo condomino, anziché all’amministratore, si rivolga direttamente all’istituto presso il quale è acceso il conto corrente per chiedere la copia della rendicontazione periodica.

L’argomento non è di secondo rilievo ed il difetto dell’espressa previsione normativa sul punto rende necessario procedere per via ermeneutica al fine di comprendere se la scelta operata dal Legislatore abbia implicitamente presupposto l’accesso immediato, oppure se abbia inteso limitare il diritto del condomino alla forma che preveda l’esclusiva, o la preventiva, istanza all’amministratore.

Prima facie, pare che l’esclusione dell’esercizio diretto costituirebbe un ingiustificato limite nell’accesso al diritto che, invece, nella sua attuazione successiva risulta della massima ampiezza, giungendo financo alla facoltà di controllare ogni singola movimentazione del conto, sia in entrata che in uscita, sia che riguardi singoli condomini, sia terzi estranei all’ente, quali sono i fornitori, con ciò determinando un’ingiustificata soluzione di continuità nell’attuazione del principio al quale la riforma è stata integralmente improntata. Infatti, eventuali aspetti di privacy soccombono rispetto al superiore interesse della trasparenza nella gestione condominiale, come più innanzi meglio affrontato.

Inoltre, nell’ottica della previsione delle ipotesi destinate ad esser regolate dalla norma in esame, l’esclusione dell’istanza diretta comprimerebbe la libertà dell’esercizio del diritto, poiché non può escludersi l’ipotesi per la quale l’esigenza della verifica contabile sia sorta nel singolo condomino per effetto del venire meno del rapporto di fiducia con l’amministratore dello stabile e, data la generale attenzione alle spese determinata dalla congiuntura economica, ben può immaginarsi quante siano le occasioni nelle quali il cittadino, nell’anelito al risparmio ed alla legalità, si risolva a detto controllo rivolgendosi direttamente all’istituto bancario o postale, vuoi per non render nota la verifica all’amministratore, vuoi perché abbia motivo di dubitare dell’autenticità delle copie degli estratti conto consegnategli dall’amministratore, vuoi per altre particolari plurime ipotesi variabili da caso a caso.

LE PRONUNCE DELL’ARBITRO BANCARIO FINANZIARIO

Allo stato, nell’ipotesi che un condomino rivolga la propria istanza direttamente all’istituto bancario e che quest’ultimo non l’accolga e non gli rilasci la copia della rendicontazione del conto corrente condominiale, il primo avrà la facoltà di reagire al diniego mediante il ricorso alla pronuncia dell’Arbitro Bancario Finanziario; infatti, la reintroduzione dell’istituto della Mediazione obbligatoria ante causam ad opera del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla L. n. 98/2013, ha ripristinato la possibilità di soddisfare la condizione di procedibilità mediante il ricorso all’Arbitro Bancario Finanziario in alternativa al procedimento di conciliazione o di mediazione.

Ordunque, plurime sono state le occasioni di pronuncia dell’ABF in fattispecie nelle quali l’istituto aveva reietto l’istanza del condomino, ed assai rilevante è la circostanza per la quale in esito all’introduzione della novella nel diritto condominiale, l’Arbitro abbia mutato il proprio indirizzo negando il diritto del condomino, prima riconosciuto, ad ottenere direttamente dall’intermediario la copia della rendicontazione, con ciò aderendo alla teoria interpretativa restrittiva, per la quale è previsto solo l’esercizio mediato del diritto.

In particolare, ricordato che la novella disciplina del Condominio entrò in vigore il 18 giugno 2013, il percorso delle decisioni dell’Arbitro Bancario Finanziario, che fino ad allora aveva costantemente riconosciuto il diritto dell’accesso immediato1, è radicalmente mutato e, per effetto dell’avvenuta introduzione del settimo comma dell’art. 1129 c.c., le successive pronunce hanno ristretto l’ampiezza del diritto del condomino limitando l’accesso alla documentazione bancaria alla sua forma mediata2.

In verità, il solo Collegio di Roma, pur successivamente alla novella, si è discostato dal nuovo indirizzo e, in data 3 luglio 2014, con la decisione n. 4208, ha riaffermato il diritto all’accesso immediato, pur prevedendo la necessità delle preventiva istanza all’amministratore.

La teoria primigenia trovava fondamento nel consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale “configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, l’esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l’amministratore, non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti, esclusivi e comuni, inerenti all’edificio condominiale”3.

Da tale principio, in applicazione delle norme sul mandato e sulla rappresentanza, consegue che, non solo per indirizzo giurisprudenziale ma per espressa previsione, ogni singolo partecipante è titolare pro quota di ogni posizione giuridica afferente al Condominio, che, quale ente di gestione caratterizzato dalla qualità di mandante/rappresentato, ma nel difetto della personalità giuridica e della separatezza patrimoniale, è null’altro che l’unità costituita dalla somma dei plurimi parziali partecipanti.

Infatti, la conferma di questa evoluzione nel diritto condominiale, risiede nel principio per il quale le obbligazioni verso i terzi contratte dall’amministratore sono direttamente riferibili ai singoli condomini, che ne rispondono direttamente pro quota, fatta salva la residuale ipotesi della solidarietà passiva prevista dall’art. 63 disp. att. c.c. al secondo comma (“I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini”).

Né sarebbe utile ad escludere il diritto all’accesso immediato opporre il richiamo alle norme sulla privatezza, poiché la contitolarità virtuale del rapporto bancario appartenente ai singoli condomini, alla quale corrisponde la spendita del nome del Condominio al solo fine della stipula pur nella consapevolezza che a detta identificazione non corrisponde una persona giuridica, e che al potere di disposizione attribuito al solo amministratore non corrisponde alcun titolo di proprietà sulle somme giacenti, poiché egli solo costituisce la persona fisica alla quale il rapporto è riferibile ai fini gestionali, rende evidente che le movimentazioni oggetto del rapporto di conto corrente, e quindi esposte nella rendicontazione periodica, non concernono aspetti altri e diversi da quelli della gestione dell’ente, sui quali ogni partecipante ha pieno diritto d’informativa. Tant’è che il principio espressamente codificato dal Legislatore sancisce il diritto d’averne la copia.

La tesi restrittiva, che si è sviluppata in esito all’entrata in vigore della novella, ha opposto tuttavia l’interpretazione per la quale il settimo comma dell’art. 1129 c.c. “ha espressamente riconosciuto il diritto di ogni singolo condomino a prendere visione ed estrarre copia della rendicontazione periodica della banca, precisando tuttavia al contempo che detto diritto non può essere esercitato direttamente, bensì solo attraverso l’amministratore” senza, peraltro, chiarire l’origine e la ratio di detta limitazione, né dedurne il percorso logico giuridico che giustificherebbe la compressione del diritto del condomino all’informativa.

COMMENTO CRITICO

In definitiva, quindi, l’opzione di adesione alla teoria estensiva o a quella restrittiva sconta la preventiva scelta di considerare tacitamente presupposta l’esistenza del diritto all’accesso immediato, oppure che questo sia implicitamente escluso dalla locuzione utilizzata dall’estensore della novella (“per tramite dell’amministratore”), alla quale attribuire l’ulteriore significato inteso dagli interpreti (“detto diritto non può essere esercitato direttamente, bensì solo attraverso l’amministratore”).

Ordunque, secondo le regole ermeneutiche (art. 12 delle preleggi), la comprensione del testo normativo non può prescindere da una duplice analisi, quella del tenore letterale e quella dell’intenzione del legislatore.

Per quanto riguarda la prima delle due vie d’indagine, senz’altro l’assenza nel testo di un avverbio limitativo che espressamente escluda ogni altra via d’acquisizione dei documenti bancari (ad esempio, “solo per tramite dell’amministratore”) non depone a favore della teoria restrittiva, né l’interprete può ritenersi autorizzato ad introdurre una normativamente imprevista limitazione del diritto all’ottenimento della copia della rendicontazione.

Sempre con riferimento al dato testuale, appare anche opportuno considerare l’innovazione che ha caratterizzato la norma all’interno della quale il comma in esame è inserito. Infatti, prima della riforma, l’art. 1129 recava il titolo “nomina e revoca dell’amministratore” mentre la novella del 2012 ha introdotto l’ulteriore contenuto obbligatorio (“nomina, revoca e obblighi dell’amministratore”).

Il corpo della norma destinata a tale innovativo contenuto è, infatti, stato elevato dai primordiali 4 commi alla attuale composizione in 16 commi, che prevedono e disciplinano espressamente le obbligazioni alle quali è tenuto l’amministratore nell’esecuzione del mandato di amministrazione, financo pena la revoca. Mentre alcuna parte della disposizione in esame è destinata alla disciplina dei diritti e dei doveri dei singoli condomini.

Ditalché, anche sotto l’aspetto sistematico, appare fragile l’ipotesi per la quale il legislatore avrebbe sottinteso l’esclusione del diritto del condomino alla copia su istanza diretta all’istituto, con conseguente limitazione alla sola ipotesi dell’ottenimento mediato, inserendo tacitamente la relativa disciplina nel corpo di una norma organicamente coordinata con altri e diversi argomenti, quale quella in esame, che è invece integralmente e nominativamente destinata alla elencazione, da considerarsi tassativa, delle obbligazioni gravanti sull’amministratore in virtù del rapporto di mandato.

Inoltre, considerata la diretta riferibilità ai singoli condomini pro quota del rapporto di conto corrente, così come per gli altri rapporti contrattuali stipulati dall’amministratore nell’interesse dell’ente di gestione, e la conseguente applicabilità ad essi del disposto dell’art. 119 T.U.B. sulle comunicazioni periodiche alla clientela, il collegamento sistematico della teoria restrittiva appare ancor più distante.

Tali argomenti, inoltre, si sommano a quelli già compresi nella linea interpretativa primigenia.

Ad ulteriore conferma, successivamente all’entrata in vigore della novella, il Garante della Privacy ha chiarito, con la newsletter n. 387 del 23 aprile 2014, che ogni singolo condomino è titolare di una posizione giuridica che gli consente l’accesso integrale alle informazioni circa le movimentazioni del conto corrente comune, nonché il diritto all’estrazione di copia senza limitazione alcuna; con ciò escludendo l’ipotesi esclusiva dell’accesso mediato.

LA POSIZIONE DELL’ABF SEDE DEL CENTRO ITALIA

Tuttavia, come accennato all’inizio di questo articolo, i Collegi di Milano e di Napoli hanno ormai consolidato il loro indirizzo restrittivo, mentre quello di Roma invece ha ritenuto preferibile mitigare il presupposto carattere limitativo della norma ed ha ritenuto, con la pronuncia n. 4208 del 3 luglio 2014, di interpretare la disposizione “come prescrittiva di un obbligo di preventiva richiesta all’amministratore condominiale …, ma non come preclusiva del diritto del singolo condomino di richiederla ed ottenerla direttamente dall’intermediario in caso di inadempienza dell’amministratore”.

Ordunque, da quanto fin qui esposto non può revocarsi in dubbio che il dibattito sia suggestivo e che, per la sua definitiva soluzione non ci si possa esimere dal concludere con l’analisi del duplice ordine di interessi alla tutela dei quali era in animo del legislatore rivolgere la norma.

Il primo di essi, quale espressamente dichiarato, è l’interesse alla trasparenza nella gestione condominiale, il cui correlato diritto viene attuato mediante la fissazione del diritto alla copia della documentazione, e l’accettazione dell’inevitabile sacrificio dei qui minori rilievi di privacy; il secondo deve essere identificato con l’interesse dell’amministratore ad esser fatto destinatario di una disciplina chiara, esaustiva e tassativa che determini con precisione le obbligazioni delle quali egli è gravato, ed a tal fine la norma fu edita anticipandone financo il contenuto nel titolo.

Da ultimo, posto che l’Ordinamento non attribuisce all’Arbitro il potere di comprimere od attenuare il diritto fissato dal legislatore, ne deriva che l’interposizione della preventiva richiesta o, addirittura, la negazione del diritto all’accesso diretto, attuati mediante un obiter dictum, si risolve in una indebita attenuazione e compressione del diritto al controllo della gestione comune che, come esplicitato, costituisce la ragione prima del principio di trasparenza al quale la riforma è stata improntata. Oltre a ciò, l’indebita interposizione di imprevisti ostacoli all’esercizio del diritto mediante il reinserimento del diaframma rappresentato dall’amministratore, sia in via preventiva che esclusiva, si risolve sostanzialmente in un inaspettato concorso all’attività ostativa eventualmente posta in essere dall’amministratore stesso ove la ragione che muove il condomino al controllo fosse fondata ed effettiva; infatti, la reiezione dell’istanza diretta avrebbe come primo effetto proprio quello di tardare, o addirittura impedire, la verifica da parte dell’avente diritto, con ciò prestando indebito concorso all’attività del mandatario infedele. In tale ottica, le richiamate pronunce non solo appaiono non conformi al diritto, ma financo svianti dell’interesse pubblico sotteso alla tutela dei diritti dei condomini/mandanti per i quali, invece, il legislatore pare abbia inteso approntare garanzie di verifica e controllo prima inesistenti. In tale ottica, ancor più inadeguata risulta la soluzione proposta dall’ABF in seguito all’entrata in vigore della novella, poiché non può ammettersi che la nuova norma sia stata destinata a comprimere un diritto che, prima dell’introduzione del settimo comma dell’art. 1129 c.c., riceveva maggior tutela proprio dai medesimi Arbitri che ora, invece, hanno mutato segno.

Ditalché, pare allo scrivente, che si debba concludere per l’interpretazione che ammette la legittimità della richiesta diretta, e che esclude anche l’obbligo della preventiva istanza rivolta all’amministratore; tale soluzione appare non solo più conforme alla tutela di detti interessi, ma anche sistematicamente coerente sia con la collocazione della disposizione nel combinato disposto che tassativamente elenca le obbligazioni gravanti sull’amministratore in virtù del contratto di mandato, sia con l’esigenza di tutela della trasparenza che, in difetto, sarebbe gravemente limitata dall’obbligo della preventiva istanza, o addirittura esclusa, se invece si ammettesse il solo diritto di accesso mediato.

1 Decisioni: Milano 19 aprile 2011, n. 814; Napoli 17 aprile 2012, n. 1154, Milano del 15 ottobre 2012, n. 3259, Milano del 6 marzo 2013, n. 1282, Milano 27 giugno 2013, n. 3478.

2 Decisioni: Milano 22 gennaio 2014, n. 400, Napoli 25 marzo 2014, n. 1797, Milano del 30 luglio 2014, n. 4947, Milano 24 settembre 2014, n. 6193.

3 Ex plurimis, Cass. n. 7300/2010, Cass. n. 1011/2010, Cass. n. 3900/2012, Cass. n. 4991/2012.

L’apposizione delle canne fumarie sulla facciata degli stabili in condominio

di Mauro Manassero – Avvocato in Torino

L’esercizio dell’attività commerciale di produzione e somministrazione di alimenti al pubblico in unità site al piano terreno di un edificio in Condominio necessita dell’adozione di sistemi di smaltimento dei fumi e degli odori prodotti dalle cucine che si pongono in apparente conflitto con il diritto del Condominio medesimo, per quanto concerne le parti comuni, e dei suoi partecipanti, con riferimento sia ai diritti di ciascuno sulle parti comuni e sia ai diritti afferenti alle parti private. L’analisi della giurisprudenza, sia di merito che di legittimità e sia civile che amministrativa, consente di individuare le norme di riferimento per il corretto e legittimo esercizio del diritto di apporre il dotto fumario in aderenza alla facciata comune condominiale e chiarisce, inoltre, entro quali limiti detta attività può essere esercitata pur nella tutela dei diritti concorrenti.

Introduzione

Capita spesso che soggetti che hanno in animo di intraprendere l’esercizio commerciale della somministrazione di bevande ed alimenti, succedendo a precedenti esercenti o iniziando una nuova attività, non dedichino sufficiente attenzione al sistema di smaltimento dei fumi e degli odori prodotti da tali attività.

Tuttavia, siffatto aspetto costituisce elemento essenziale per l’esercizio dell’attività di ristorazione, giacché il rilascio della autorizzazione sanitaria necessaria allo scopo presuppone, tra i vari requisiti, la presenza di un sistema di smaltimento idoneo e conforme alla normativa vigente.

A far data dalla metà degli anni 90, vari Comuni hanno imposto l’adozione di sistemi di smaltimento a canna fumaria, con sostituzione dei precedenti impianti filtranti a carboni attivi, ogni qualvolta si era in presenza di segnalazioni provenienti da soggetti che lamentavano, in danno di un determinato ristorante, la presenza di odori sgradevoli provenienti dall’attività di cucina .

Da allora, è sufficiente che un condomino manifesti le proprie doglianze per la presenza di esalazioni derivanti dall’attività di produzione del ristorante sottostante, perché l’Ufficio Igiene ed Alimenti invii gli ispettori che, accertata la presenza di sistemi diversi da quello a cappa aspirante filtrata collegata con canna fumaria, redigono la propria relazione acclarante la presenza del vetusto sistema a carboni attivi; siffatta relazione precede di pochi giorni la notificazione dell’ordinanza di esecuzione, entro 90 gg., delle opere di sostituzione dell’impianto obsoleto, pena la revoca dell’autorizzazione sanitaria e, quindi, la sospensione dell’attività commerciale.

Ciò ha comportato la nascita di plurimi contrasti, tra i ristoratori destinatari dei provvedimenti sindacali e coloro che invece dall’adozione di tali sistemi di smaltimento ricevono fastidio se non addirittura danno.

Ovviamente, i contrasti sono sorti soprattutto in sede condominiale e in molti casi l’argomento è stato strumentalizzato quale “escamotage” per cercare di ottenere la cessazione delle attività di ristorazione.

L’argomento è molto ampio perché comprende l’analisi delle norme del codice civile che consentono in ambito condominale l’apposizione della canna fumaria privata in aderenza alla facciata condominiale, l’identificazione dei limiti all’esercizio di siffatto diritto, le modalità pratiche e processuali di difesa di fronte all’opposizione del condominio e dei singoli condomini, il comportamento della p.a., e la giurisprudenza amministrativa sull’argomento.

L’analisi delle norme

La norma nella quale trova fondamento la realizzazione di tali opere, è l’art. 1102 del codice civile, che consente a ciascun condomino di trarre dal bene comune condominiale, nel nostro caso la facciata, la massima utilità a vantaggio della propria singola unità immobiliare, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla stessa norma.

In primissimo luogo, giacché l’esperienza giurisprudenziale ha insegnato che sovente gli enti di gestione erroneamente ricorrono a tali principi per sostenere l’illegittimità dell’opera, occorre chiarire che l’argomento in esame concerne la norma dell’art. 1102 cod. civ., e non la separata e diversa previsione normativa di cui all’art. 1120 cod. civ., che disciplina invece la materia delle innovazioni in ambito condominiale.

Infatti, quest’ultima riguarda le modificazioni alla cosa comune eseguite a cura e spese del condominio, quale ente di gestione, e non del singolo condomino, e tali “innovazioni” sono destinate a migliorare o a rendere più comodo l’uso di un bene comune nell’interesse di tutti i compartecipanti e non di un solo condomino come nell’ipotesi oggetto della presente analisi.

È infatti di tutta evidenza la ratio delle norme in esame e la loro complementarietà:

– ove si discuta di un intervento che un condomino abbia in animo di eseguire su un bene comune ad esclusivo vantaggio ed utilità della propria unità immobiliare, non sarà necessaria alcuna autorizzazione assembleare, purché siffatto intervento non abbia a superare i limiti posti dalla norma medesima a tutela dei diritti dei concorrenti;

– qualora invece l’intervento modificativo della cosa comune sia destinato ad attribuire a tutti i condomini un miglior godimento del bene comune, o una sua superiore utilità, sarà necessaria l’adozione della delibera assembleare che disponga sia l’esecuzione dell’opera, sia l’addebito dei relativi costi a ciascun condomino in proporzione alle rispettive quote di proprietà espresse in millesimi.

Tornando alla norma che ci interessa, cioè l’art. 1102 cod. civ., dal tenore letterale della disposizione emerge che il singolo partecipante può apportare al bene comune tutte le modificazioni necessarie allo scopo che si prefigge, purché queste non impediscano agli altri di farne il pari uso concorrente e ciò nel rispetto della destinazione d’uso senza necessità di preventiva autorizzazione assembleare1.

Ovviamente, il bene comune sul quale si esplica l’attività di edificazione del condotto fumario per l’espulsione coatta dei fumi deve essere identificato con la facciata comune condominiale e, segnatamente, quella retrostante, o secondaria, o prospiciente la corte comune.

Infatti, la facciata principale, o lato strada, è insuscettibile di interventi che, alterando l’armonia architettonica e l’aspetto estetico dell’edificio, intesi come insieme di linee verticali ed orizzontali e spazi pieni e vuoti che afferiscono un determinato aspetto e decoro allo stabile, potrebbero avere un riflesso negativo sul valore intrinseco di scambio delle unità immobiliari, con ciò rivelandosi illecitamente dannosi pergli altri condomini2.

Identificata la facciata destinataria del tracciato del condotto fumario, occorre ancora precisare che non deve trattarsi di una architettura a ballatoi continui, ovviamente perché il transito della canna fumaria attraverso le solette dei balconi a ballatoio privato conduce a tutt’altra serie di problemi che esulano dagli argomenti trattati in questa sede3.

L’art. 1102 cod. civ.

La realizzazione dell’opera comporta il rispetto di due ordini di limiti che derivano dalla coesistenza, sul medesimo bene comune, di due diversi ordini di diritti:

– quelli riferibili ai condomini in ordine al bene comune sul quale è realizzata l’edificazione, che sono fissati dall’art. 1102;

– e quelli riferibili ad ogni singolo condomino in relazione alla propria unità immobiliare esclusiva, che invece sono sanciti dalle norme che regolano i rapporti di vicinato, distanze, etc.

In ordine ai diritti afferenti al bene comune occorre in primo luogo ricordare che i limiti posti dall’art. 1102, comma 1 sono:

– rispetto della destinazione naturale del bene

– rispetto dell’uso concorrente.

Il primo limite, identificato con la destinazione del bene, è dettato dalla somma delle funzioni alle quali il bene è naturalmente destinato.

La destinazione naturale della facciata condominiale è, secondo la più ampia giurisprudenza, quella di sorreggere il fabbricato, consentire l’apertura di porte e finestre, proteggere le unità abitative dagli agenti atmosferici ma, a fianco di tali utilità, sono state identificate ulteriori funzioni accessorie inerenti il suo ruolo quale parte essenziale della struttura del fabbricato che, quindi, sono quelle di consentire l’appoggio di vetrine, targhe, insegne, cavi e fili, tubazioni, camini e canne fumarie4.

Ulteriore problema concerne l’argomento relativo al concetto di “uso della cosa comune” con riferimento all’ipotesi che l’apposizione della canna fumaria possa considerarsi idoneo ad esaurire la possibilità di utilizzo della parte di facciata destinata a siffatta apposizione.

La giurisprudenza di legittimità è pervenuta alla conclusione per la quale, nella considerazione del pari uso concorrente, si debba primariamente aver cura di accertarsi che sia ragionevolmente prevedibile che gli altri condomini non faranno un “pari uso” del medesimo bene; cosicché, posto che le abitazioni private sovrastanti il locale commerciale sito al piano terreno dello stabile non avranno mai la necessità di esser dotate di condotti per lo smaltimento coatto di fumi, ne deriva che l’ipotesi che altri condomini necessitino di godere del pari uso così identificato sia del tutto remota se non addirittura impossibile.

Oltre a ciò, il concetto di uso di bene comune nell’interesse e a vantaggio della singola unità esclusiva postula il principio per il quale siffatto uso può essere espanso fino al limite dei diritti concorrenti e, coerentemente, consente di pervenire alla successiva conclusione per la quale è ammissibile che un determinato condomino goda di un uso “più intenso” di quello che i condomini concorrenti possono a loro volta godere, purché tale uso più intenso non si riveli in danno degli altri5.

Tornando, quindi, all’analisi dell’art. 1102 cod. civ., e terminata l’esegesi del primo comma, si passa ora al secondo, che stabilisce che: “Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

Ne consegue che l’utilizzo del bene comune conformemente al diritto in questione non implica l’esercizio di un possesso idoneo ai fini dell’usucapione non potendosi tradurre il mero uso in possesso uti dominus.

Infatti, l’apposizione della canna fumaria, in quanto rientrante nell’alveo delle legittime utilità del bene comune gravato, non è idonea a integrare in capo all’agente un possesso avente le caratteristiche idonee a determinare l’usucapione della parte di muro comune interessata6.

Le distanze legali

Verificato il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 1102 cod. civ., si passa all’argomento centrale relativo al regime delle distanze legali.

L’utilizzo della facciata comune condominiale richiede per la sua legittimità il rispetto di un duplice regime di distanze, che altro non è che una ulteriore manifestazione della duplice natura dei rapporti condominiali, che concernono diritti esistenti sulle parti private e diritti invece esistenti sulle parti comuni e, come tali, condivisi da tutti i condomini.

In particolare, il tracciato della canna fumaria deve rispettare sia il regime delle distanze dai beni comuni condominiali, sia quello riferito invece alle distanze dalle singole proprietà esclusive.

Apparentemente non dovrebbe esserci differenza, poiché le norme sulle distanze non distinguono a seconda che il bene, rispetto al quale la distanza debba essere rispettata, appartenga ad un solo proprietario o a più proprietari e quindi sia un bene comune pro quota e pro indiviso.

In realtà, il differente trattamento destinato alle due diverse condizioni dei beni (comuni od esclusivi) rispetto ai quali le distanze debbono esser rispettate è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale che, nei confronti dei primi, ha attenuato l’efficacia delle norme sulle distanze a fronte della maggior rilevanza del diritto all’utilizzo del bene comune.

I beni di proprietà privata esclusiva rispetto ai quali è necessario rispettare le ordinarie distanze sono, ovviamente, le finestre ed i balconi dei singoli appartamenti che sovrastano l’unità a servizio della quale il condotto fumario dovrà essere installato; mentre quelli comuni saranno (soprattutto) le finestre e le luci a servizio delle scale comuni condominiali.

L’argomento è stato trattato nella fondamentale sentenza della Corte di cassazione n. 724/19957 che ha fissato i principi cardine nella importantissima materia.

Siffatta pronuncia contiene, nella parte motiva, due dogmi di fondamentale rilevanza nella materia qui trattata che riguardano:

– la distanza che dovrà esser rispettata nei confronti delle finestre e dei balconi privati posti sulla medesima facciata sulla quale sarà apposta la canna fumaria;

– la distanza che dovrà essere rispettata nei confronti delle finestre comuni condominiali.

Pertanto, atteso che il fondo sul quale è esercitata la veduta è la facciata, e con l’affaccio dalle finestre private si potrà dare corso solamente ad una visione obliqua, ma non ad una visione diretta, allora non troverà applicazione la norma di cui all’art. 907 cod. civ.8 ma in luogo della misura prevista nella norma testé richiamata, dovrà osservarsi verso le parti in esclusiva proprietà la distanza minima prevista per l’apertura di vedute laterali ed oblique di cui all’art. 906 cod. civ.9 e, quindi, cm.75.

Legittimamente ci si chiederà, quindi, da quale punto la distanza dovrà essere misurata; per quanto concerne le finestre dovrà aversi cura di procedere alla misurazione dalla spalletta di contorno della finestra e fino al bordo esterno del condotto fumario; mentre per i balconi si dovrà procedere alle misurazioni a partire dall’ultimo sporto del balcone che deve essere identificato con il lato esterno della soletta, o del “marmetto” che delimita la pavimentazione e che normalmente si inserisce lateralmente nella facciata.

Per quanto concerne il regime delle distanze tra il condotto fumario e le finestre comuni condominiali, la S.C. ha, invece, fissato una importante deroga dovuta alla prevalenza del diritto del singolo all’uso più intenso del bene comune sulle norme relative alle distanze10.

Occorrerà, tuttavia, avere cura di non ostacolare o limitare il normale utilizzo delle finestre in questione e, quindi, il condotto dovrà essere posizionato in guisa da non limitare l’accesso di luce ed aria (e, quindi, la canna fumaria non potrà essere installata davanti alla luce della finestra, bensì a fianco della medesima); e parimenti si dovrà consentire la completa apertura dei battenti ove essi avessero l’apertura a libro verso l’esterno.

Aspetti pratici

Sotto l’aspetto pratico, è importante rilevare che è sufficiente che un condomino lamenti odori sgradevoli provenienti da attività di ristorazione posta al piano terreno dell’edificio in Condominio affinché l’ente territoriale, a mezzo dell’Ufficio Igiene ed Alimenti, invii i propri ispettori che, accertata l’esistenza di un sistema di smaltimento a carboni attivi, provvedano a segnalare lo stato di fatto e, conseguentemente, il Comune emetta l’ordinanza che concede 90 gg. per la sostituzione del sistema a carboni attivi con quello a canna aspirante filtrata collegata con il condotto fumario.

Il soggetto legittimato ad esercitare il diritto che sopra abbiamo identificato, è solamente il proprietario dell’unità immobiliare entro la quale sarà, o è, esercitata l’attività di somministrazione.

Il conduttore non appare legittimato attivamente, perché in linea di massima è difficile ricondurre la fattispecie in esame nell’alveo delle “molestie” previste dalle norme di cui agli artt. 1585 e 1586 cod. civ.; quindi, nel caso in cui il ristoratore sia conduttore sarà meglio coinvolgere il titolare del diritto di proprietà.

Sarà utile, pertanto, predisporre una scrittura privata di duplice e reciproco contenuto da sottoporre alla sottoscrizione dei due soggetti:

– da un lato dovrà prevedersi l’impegno del locatore a sottoscrivere ogni documento e a svolgere ogni attività richiesta per l’installazione della canna fumaria, e quindi anche l’impugnare in proprio nome l’eventuale delibera condominiale di diniego;

– dall’altro, l’impegno del conduttore a tenere indenne il locatore da ogni conseguenza, soprattutto economica, che dalle attività e dall’impugnazione dovesse derivare.

Premesso l’accordo privato tra il conduttore e la proprietà, il primo atto formale da porre in essere sarà quindi la presentazione della DIA o SCIA presso l’Ufficio Tecnico del Comune territorialmente competente.

A tal proposito, assume centrale rilevanza la circostanza per la quale non v’è uniformità tra le allegazioni che i diversi comuni chiedono nei propri moduli SCIA/DIA.

Ad esempio:

Il Comune di Torino chiede che siano versati in atti l’assenso condominiale/consenso degli altri condomini reso ai sensi di legge (?) ma, come abbiamo già visto, l’art. 1102 cod. civ. non chiede l’assenso degli altri condomini o l’autorizzazione assembleare e, neppure v’è Legge che ne presupponga l’esistenza per l’esercizio del diritto in questione.

Il Comune di Milano è senz’altro l’ente territoriale più attento e, nel proprio modulo SCIA differenzia le situazioni a seconda che si tratti di intervento ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. o 1120 cod. civ., pretendendo, in questa sola ipotesi che sia allegata agli atti la delibera autorizzativa prevista dalla norma ivi richiamata.

Il Comune di Cuneo chiede che il progetto sia stato approvato dall’assemblea, ma non se ne comprende la ragione.

I Comuni di Asti e di Alessandria pare non chiedano alcuna allegazione specifica.

Risulta, comunque, che nessun ente territoriale chieda quella che potrebbe eventualmente essere la formula più opportuna ed appropriata, cioè quella del “nulla osta” dell’amministratore dello stabile: infatti, motivi altri e diversi potrebbero risultare ostativi, quantomeno per via temporale, all’esecuzione delle opere (ad esempio, la coesistenza di diversi cantieri in situ – quale il rifacimento della facciata o del manto di copertura – potrebbe risultare conflittuale con l’esecuzione delle opere in questione); quindi, appare consigliabile munirsi del parere dell’amministratore dell’edificio che, per soli motivi di fatto, acclari l’assenza di ostacoli all’esecuzione.

Ad ogni buon conto, nella giurisprudenza amministrativa vi sono contrasti proprio in ordine alla sussistenza del potere in capo all’amministrazione di chiedere il consenso degli altri condomini, con ciò inserendosi, d’autorità ed in difetto di una specifica previsione normativa, nei rapporti privatistici.

Infatti, alcuni Giudici amministrativi hanno ricompreso la necessità dell’assenso nella disposizione del previgente art. 4 della legge n. 10/1977, ed attuale art. 11 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia), mentre altri hanno reputato che ciò costituisse indebita ed illegittima interferenza nei rapporti di diritto privato, anche atteso che le autorizzazioni amministrative nella materia edile sono sempre rese “fatti salvi i diritti dei terzi”11.

Se però vorremo evitare qualsivoglia ostacolo, che potrebbe condurci infine a dover ricorrere al TAR, chiederemo il prefato nulla osta all’amministratore del condominio che, essendo chiamato a pronunciarsi su di un bene non al medesimo appartenente, provvederà a chiedere all’assemblea del condominio d’essere autorizzato a concedere siffatto nulla-osta.

A questo punto, sarà opportuno che il condomino chieda al medesimo amministratore, facendosi carico delle relative spese, che sia indetta un’assemblea avente ad oggetto la sua richiesta di nulla osta, allegando a tale richiesta, da inviarsi per raccomandata a.r., il progetto d’edificazione, la dichiarazione della ditta della quale s’è detto più sopra, ed i rilievi fotografici; ancor meglio se il progetto, come d’uso oggi, sarà reso mediante elaborazioni informatiche che disegnano la canna fumaria sulla facciata esattamente come essa sarà edificata.

Potrà accadere che l’assemblea del condominio neghi l’autorizzazione, senza neppure motivare il proprio diniego, ma assai spesso fondandolo sull’art. 1120 cod. civ. che, come già visto in precedenza, non ha alcuna attinenza con l’opera.

Non resterà altro da fare, quindi, che procedere con l’impugnazione della relativa delibera , trattandosi, comunque e per precisione, di un caso di nullità perché nega in radice l’esistenza del diritto del condomino che invece è sancito dall’art. 1102 cod. civ.

Si segnala, infine, che la sospensione cautelare dell’efficacia della delibera non è implicita nell’impugnazione, ai sensi del comma 2 dell’art. 1137 cod. civ. ma potrà essere ottenuta proprio in considerazione dei ristretti tempi concessi dal Comune per eseguire i lavori con ricorso d’urgenza.

Infatti, se si sarà in presenza di un’ordinanza che obbliga all’adozione della canna fumaria entro il termine di gg. 90, pena la revoca dell’autorizzazione sanitaria all’esercizio dell’attività commerciale, sussisteranno i presupposti del periculum in mora e del fumus boni juris, con possibilità quindi di procedere alla immediata sospensione della delibera tramite ricorso d’urgenza ex art. 669-bis ss. cod. proc. civ.

L’ordinanza cautelare sospensiva dell’efficacia della delibera ostativa, potrà essere prodotta all’Ufficio Tecnico comunale in luogo dell’assenso dei condomini, o del nulla-osta, e di qualsivoglia parere del condominio che l’Amministrazione pubblica avrà chiesto, dimostrando altresì all’Ufficio Tecnico dell’ente territoriale che l’edificazione è realizzata nell’ambito delle facoltà consentite al singolo condomino dall’art. 1102 cod. civ.

Nella successiva fase del merito, prevista dall’art. 669-octies cod. proc. civ., si potrà così ottenere una sentenza definitiva che acclarerà la nullità della delibera condominiale negatoria dell’esistenza del diritto12.

Occorre peraltro far notare come tali pronunce si riferiscano a periodo anteriore alla recente riforma del condominio con la quale è stata definitivamente generalizzata l’impugnazione delle delibere assembleari condominiali tramite atto di citazione e non già tramite ricorso, seppure d’urgenza.

La richiesta di sospensiva potrà comunque ben essere avanzata immediatamente dopo la notifica dell’atto di citazione e l’iscrizione a ruolo della causa, tramite idoneo ricorso al Giudice nel frattempo nominato, che fisserà udienza anticipata, rispetto alla prima udienza, ai soli fini della discussione della sospensiva.

1 Cfr. Trib. Potenza 1° febbraio 2008.

2 Sull’argomento si segnalano Cass. 16 maggio 2000, n. 6341; Cass. 15 aprile 2002, n. 5417; Cass. 22 gennaio 2004, n. 1025; Trib. Roma, sez. V, 23 marzo 2011.

3 Si segnala tuttavia la pronuncia Cass. 22 gennaio 2004, n. 1015, che affronta anche il correlato problema relativo all’inserimento del condotto fumario nel preesistente ed obsoleto cavedio utilizzato per lo smaltimento dei rifiuti domestici.

4 A tal proposito, si segnala Cass. civ. n. 6341/00, in Rass. loc., 2001, 132 con nota di De Tilla.

5 V. in tal senso: Cass., sez. II, 12 febbraio 1998, n. 1499.

6 Cass. 12 febbraio 1998, n. 1499. Cass., sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478.

7 Cass., sez. II, 23 gennaio 1995, n. 724. Dal necessario collegamento del comma 2 con il comma 1 dell’art. 907 cod. civ., a norma del quale è obbligatorio mantenere la distanza di tre metri anche dalla finestra da cui si esercita veduta obliqua quando da questa finestra si eserciti anche veduta diretta sullo stesso fondo, deriva che quando la veduta sia soltanto obliqua, il proprietario del fondo sul quale la veduta medesima si esercita non deve rispettare la distanza di tre metri ma solo quella di settantacinque centimetri dal più vicino lato della finestra medesima, ai sensi dell’art. 906 cod. civ.

Le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale nel caso in cui esse siano compatibili con l’applicazione delle norme particolari relative all’uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.), cioè nel caso in cui l’applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile una complementare; nel caso di contrasto, prevalgono le norme relative all’uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (nella specie, si trattava della installazione, in appoggio al muro condominiale, ed in prossimità della finestra di un condomino, della canna fumaria della centrale termica condominiale).

8 Art. 907. Distanza delle costruzioni dalle vedute. Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell’articolo 905.

Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.

Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia.

9 Art. 906. Distanza per l’apertura di vedute laterali od oblique. Non si possono aprire vedute laterali od oblique sul fondo del vicino se non si osserva la distanza di settantacinque centimetri, la quale deve misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto.

10 V. in tal senso la recentissima sentenza 3 marzo 2014, n. 4936 della S.C., che ha stabilito la legittimità dell’apposizione di una canna fumaria in aderenza al muro perimetrale ed a ridosso del terrazzo a livello di proprietà di un condomino.

11 Si segnala in proposito l’importantissima pronuncia del Cons. Stato 23 giugno 1997 n. 699; Oltre a Cons. Stato, sez. V, 3 gennaio 2006, n. 11, Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2004, n. 6297, Cons. Stato, sez. V, 9 novembre 1998, n. 1583.

12 V. in tal senso Trib. Torino: proc. urgenza 466/C/2000 – sentenza 3999/01; proc. urgenza 72/1999 – sentenza 8203/99; App. Torino sentenza n. 941/2000.